Londra – Il 23 giugno 2016 i cittadini del Regno Unito si sono detti contrari a un’ulteriore permanenza del paese all’interno dell’Unione Europea. In realtà lo scarto fra i voti contrari (51,9%) e quelli a favore (48,1%) è stato davvero esiguo. Nonostante questo però è stata quella la data di inizio del processo che tutti noi oggi conosciamo come Brexit.
La data di uscita definitiva fu fissata per il 29 marzo 2019, appena l’altro ieri, ma sappiamo che i fatti sono andati diversamente.
Cosa è andato storto? Ripercorriamo insieme le tappe che ci hanno portato sin qui.
Come si è arrivati alla Brexit?
Nel 2015 l’allora premier e leader del partito conservatore, David Cameron, durante la campagna elettorale che gli valse poi la rielezione, inserì nel programma la possibilità di indire un referendum che avrebbe permesso ai cittadini di esprimere la loro opinione circa la permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione.
Tra le fasce più povere della popolazione, quelle che nell’ultimo decennio hanno maggiormente risentito della crisi economica, serpeggiava un malcontento che aveva trovato il suo capro espiatorio più prossimo sul tema dell’immigrazione e dell’Unione Europea. Uno scenario invero tuttora presente e che non ha interessato solo il Regno Unito, ma molti stati dell’Unione, compreso il nostro.
Nonostante il Regno Unito godesse già di un rapporto speciale con l’UE, come deroghe particolari e il rimborso dei fondi versati, Cameron tentò comunque di rinegoziare alcuni accordi, in particolare sui controlli dell’immigrazione. Ulteriori condizioni particolari vennero concesse al Regno Unito, ma questo non fu sufficiente a placare le voci di chi sosteneva con forza la necessità di una Brexit.
Il governo di Theresa May
Strenuo sostenitore di una permanenza del paese all’interno dell’Unione, David Cameron, a seguito del risultato referendario, che vedeva la maggioranza del popolo pensarla diversamente da lui, decise di rassegnare le sue dimissioni.
A prendere il suo posto fu Theresa May, che sino a quel momento era stata anch’essa una tiepida sostenitrice del “remain”. Una volta assunto l’incarico di primo ministro però, la May si è dimostrata da subito intenzionata a legare il suo nome alla Brexit (purtroppo inconsapevole di ciò che avrebbe significato per la sua leadership).
Il 17 gennaio 2017 Theresa May durante il discorso “di Lancaster” espone chiaramente le intenzioni che la guideranno nei trattati con l’Unione Europea per far seguito alla Brexit. In particolare sottolinea la necessità per il Regno Unito di sfilarsi dal mercato unico e avere il pieno controllo delle frontiere così da poter gestire l’immigrazione intra ed extra europea.
Nel frattempo i leader europei esprimono la necessità di avviare al più presto i negoziati, soprattutto per dissipare il clima di incertezza politica ed economica, allo stesso tempo però non possono non guardare con preoccupazione al nuovo asse anglo-americano. Negli Stati Uniti infatti si è appena insediato Donald Trump, che non ha mai nascosto le sue simpatie per la Brexit.
Il 29 marzo 2017 Theresa May attiva l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, dando ufficialmente inizio al processo di uscita del Regno Unito dall’UE.
Data prevista per l’addio definitivo il 29 marzo 2019.
Cosa è andato storto?
L' 8 giugno 2017 Theresa May convoca elezioni legislative anticipate, l’intento è quello di consolidare la sua autorità in parlamento prima di iniziare i negoziati con l’Europa. Il risultato la lascia spiazzata e ribalta completamente la situazione: il partito conservatore perde la maggioranza assoluta e per continuare a governare la May è costretta ad allearsi con il Dup, un piccolo partito nordirlandese ultraconservatore.
A distanza di sei mesi da quello che probabilmente è stato il primo colpo alla leadership della May, al quale ne sarebbero seguiti molti altri, arriva il primo accordo iniziale con l’UE annunciato dalla stessa premier britannica dal presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker. L'accordo riguarda i tre dossier principali: il conto da pagare per uscire dall’Unione, i diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito e la frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord. Si apre così la seconda fase dei colloqui tra Londra e Bruxelles.
Il governo May inizia a scricchiolare nel luglio dello scorso anno, quando la leader presenta il suo piano per le relazioni commerciali fra UE e Regno Unito successive alla Brexit. Mossa che provoca le dimissioni di due importantissimi membri del suo governo: David Davis, ministro della Brexit, e Boris Johnson, Segretario di Stato per gli Affari Esteri e del Commonwealth, già sindaco di Londra per due mandati e agguerrito sostenitore della Brexit. Le motivazioni che hanno spinto i due ministri alle dimissioni sono da imputare a un “ammorbidimento” delle posizioni della May nei confronti delle “concessioni” fatte all’Europa.
Arriviamo così a pochi mesi fa, quando a Downing Street viene annunciato l’accordo fra i negoziatori inglesi e quelli europei. Un piano di accordo tecnico che viene approvato anche dal consiglio dei ministri inglesi a seguito di una riunione per nulla facile e che porta alle dimissioni di cinque membri del governo, fra i quali nuovamente anche il ministro per la Brexit, Dominic Raab, insediatosi non molto tempo prima.
La May chiude il 2018 superando una mozione di sfiducia organizzata dai deputati del suo stesso partito, ma il nuovo anno non si apre certo sotto il migliore degli auspici. Il 15 gennaio infatti la Camera dei Comuni boccia a larga maggioranza la proposta di accordo che Theresa May aveva raggiunto in novembre con l’UE.
La questione più controversa è quella relativa al backstop ovvero un meccanismo che garantisce la creazione di un confine “non rigido” fra Irlanda e Irlanda del Nord e che dovrebbe entrare in vigore al termine di un periodo di transizione di due anni successivo alla Brexit. La clausola di backstop è un paracadute d’emergenza che scatterebbe solo nel caso in cui Regno Unito e Unione Europea non riuscissero a redigere nuovi trattati per dirimere la questione del confine. Il backstop prevede la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale a tempo indefinito e fino al raggiungimento di un accordo, prevede inoltre condizioni speciali per l’Irlanda del Nord che sarebbe più integrata nel mercato unico europeo rispetto al resto del Regno Unito.
La questione del confine fra Irlanda e Irlanda del Nord trova le sue ragioni non solo nelle questioni economiche, ma soprattutto in quelle politiche. È ricordo recente infatti la travagliata e sanguinosa guerra civile che ha attraversato il paese. La pace avvenuta a seguito degli accordi degli anni novanta ruota proprio intorno all’abolizione di un confine rigido.
Negli ultimi tre mesi il Parlamento inglese ha bocciato l’accordo altre due volte (l’ultima appena un paio di giorni fa) e ha invece approvato un emendamento che rimette nelle sue mani la gestione della Brexit, rompendo così una tradizione secolare.
Nel frattempo la May è sempre più sola e all’angolo, altri tre suoi ministri abbandonano il campo. Il 20 marzo è una leader provata ed esasperata quella che si rivolge al popolo inglese lamentandosi della condotta di Westminster. Una condotta che lo stesso giorno la vede costretta a chiedere all’Unione Europea una proroga della “data di scadenza” al 30 giugno 2019.
La risposta dei 27 leader UE non si fa attendere. Viene concessa una proroga per la Brexit fino al 22 maggio 2019 a condizione che entro il 31 marzo il Parlamento del Regno Unito approvi l’accordo di recesso. In caso contrario la proroga è concessa solo fino al 12 aprile 2019 ed entro questa data ci si attende che il Regno Unito comunichi “il percorso da seguire”.
A oggi l’accordo non è stato approvato dal Parlamento inglese e a nulla sono valse le promesse di Theresa May circa un suo ritiro anticipato dalle scene qualora i deputati avessero votato a favore. Il termine ultimo è quindi il 12 aprile e Donald Tusk ha già convocato un consiglio speciale sulla Brexit per il 10 aprile.
Cosa accadrà adesso? Difficile a dirsi. Il Regno Unito potrebbe decidere di revocare l’articolo 50 e restare nell’Unione Europea (ma questo è improbabile), oppure di optare per una unione doganale simile alle condizioni che esistevano nel vecchio Mercato economico comune europeo. Potrebbe indire un nuovo referendum o addirittura arrivare a elezioni anticipate se Theresa May decidesse di dimettersi.
Tutte le ipotesi sono sul tavolo, quel che è certo è che sulla Brexit è ancora tutto da decidere.