Il Cristo crocifisso e risorto è il centro della Pasqua e dalla sua venuta comincia il conto dei giorni e degli anni. Serbo sempre l’emozione di due rappresentazioni straordinarie: il Cristo deposto del Mantegna a Milano e la resurrezione di Pietro della Francesca a San Sepolcro. Racchiudono il senso universale del dolore, la sorpresa e la gioia della resurrezione.
Non solo i credenti restano in contemplazione ammirati da tanta intensa bellezza che va oltre in qualche misura la straordinaria inspirazione pittorica, per sollecitare una riflessione anche laica, sul senso della vita e sul mistero di questo sacrificio umano e divino insieme che interroga tutti nel profondo.
La religiosità popolare celebra tutto questo e sono davvero in tanti a partecipare alla liturgia del venerdì santo, raccontata in mondo visione al Colosseo. Papa Francesco prega assorto seguendo le stazioni della via crucis, commentate da cristiani in rappresentanza di tutti i continenti, specie dei luoghi dove maggiore è la sofferenza e il martirio. Papa Francesco accusa i mercanti di armi che per accumulare ricchezza cinicamente fanno finta di ignorare quanta barbarie e distruzione di vite innocenti provocano nell’indifferenza di molti. La croce che porta appeso il Cristo morente diviene un simbolo doppio di dolore, sofferenza e morte, con i tanti Pilato che si lavano le mani. Soprattutto però la croce diventa segno di riscatto e di vittoria perché il Nazareno è il Risorto, l’uomo Dio che ha assunto su di sé tutti i peccati del mondo, indicando la via della salvezza e dei percorsi di vita vera. Da secoli la tradizione popolare rinnova i riti della settimana santa con liturgie che si svolgono in tutti i paesi e le città.
Mi trovo nella Tuscia, tra Orvieto e Bagnoregio e ho partecipato al rito che si svolge lungo le strade del centro storico, fino a culminare nella salita scoscesa che conduce a Civita. Un grumo di tufo che culmina su un fungo in cima appena pianeggiante, sospeso nel vuoto da ogni lato, al termine della Valle dei Calanchi, solcata da fenditure profonde e aguzze. Giungere in cima a Civita -la città che muore- come l’ha chiamata Bonaventura Tecchi non è agevolissimo. Le donne e gli anziani chiedono di procedere più lentamente ai portatori della croce che si danno il cambio durante la salita.
Tutti però desiderano arrivare sino alla spianata dove sorge, fina dal seicento, la chiesa madre che accoglie la croce santa che, riscenderà l’indomani a Bagnoregio nella chiesa di San Bonaventura, successore di Francesco d’Assisi, teologo e filosofo ricordato da Dante nella Divina Commedia e a cui ha dedicato la tesi di laurea il Papa Benedetto XVI. Osservo i volti, sono compunti e assorti, ma anche sereni privi di segni di ansia e preoccupazione. Persone comuni, donne in maggioranza, ma anche tanti gli uomini e i ragazzi che procedono secondo le scansioni della processione. Il percorso faticoso e suggestivo, con in testa una grande croce che richiama la salita al Golgota. Si odono solo i brani evangelici della via crucis e l’oscurità è illuminata da tante candele accese che ogni tanto il vento si incarica di spegnere con le sue fredde folate.
E’ sempre la croce che fa lentamente da unico punto di riferimento e di attrazione. La modesta luce delle candele scopre volti segnati dalle vicende della storia personale di ciascuno e ricordano i volti della “passione secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, girata in bianco e nero tra i sassi di Matera. Emerge un grande desiderio di liberazione, di serenità, di superamento di una condizione di precarietà e di sofferenza. La risposta va ricercata in un evento che ha visto l’uomo giusto per eccellenza caricarsi tutti i mali e i peccati del mondo e darci, nonostante tante malvagità e ingiustizie, ragioni di speranza e di impegno personale.
da www.aje.it