Ne L’altra faccia della luna (Altromondo Ed,. VI, 2019) il nisseno Beppe Burgio narra dei tentativi fatti per conoscere l’altra faccia di sé, quella di “diventare un uomo di successo nel mondo della arte” (p. 31). Come dice egli stesso, lui “aveva due soli amori: la pittura e la musica” (p. 19). In un’estate del 1962 fugge pertanto dalla sua città d’origine e, grazie al passaggio in macchina di un rappresentante di materiali per fioristi, arriverà a Roma, considerata il centro del mondo. E qui, per quanto possibile, esperimenterà i due campi dell’espressione artistica. Per la pittura, non possedendo uno studio proprio, si avvarrà dell’accoglienza che i vari amici pittori gli faranno dei loro atelier, mentre per la musica racimolerà fortunosamente qualche ingaggio nei locali della “dolce vita” gravitante intorno a Via Veneto (a esempio al’Harry’s Bar o al Tokyo o al Club 54) o tenterà alcune infruttuose audizioni presso un famoso presentatore televisivo (“Pippo” è facile indovinare chi sia) o presso Teddy Reno.
Questi tentativi termineranno nel 1965, quando ritornerà nella città natale, dove accetterà una collaborazione in una grande casa farmaceutica come ‘rappresentante scientifico’ (dopo aver accettato prima un lavoro in un grande albergo di Grottaferrata). Queste esperienze non saranno comunque inutili, perché faranno capire all’autore che, nel mondo contemporaneo, è quasi impossibile vivere una vita bohémien, dedicata alla sola arte. Come peraltro avverrà per la quasi totalità delle persone citate nell’ultimo capitolo del libro, che, oltre alle professioni borghesi, esercitano anche – e con successo – le loro attività nei vari campi dell’arte.
Non saranno nemmeno inutili sotto l’aspetto dell’esperienza che l’autore ne ricaverà: infatti è molto vivo il mondo descritto da Burgio sia in campo pittorico che musicale. In pittura avrà la delusione di non essere “compatito” dal maestro Guttuso – alla cui pittura si era sempre ispirato – e constaterà che, a quel tempo, l’ideologia ‘comunista’ influenza tutto il mondo dell’arte. Assisterà al suicidio di un pittore peruviano, come per la musica avverrà peraltro a Luigi Tenco. Non si può comunque accusare la “dodecafonia” della distruzione dei canoni tradizionali (la cultura dell’autore in campo musicale è prevalentemente “leggera”: le due sole citazioni di musica classica sono un adagio di Albinoni e i Concerti brandeburghesi di Bach).
Trovare il proprio equilibrio, pur non disattendendo le spinte che il dèmone personale invia dal sottosuolo dell’inconscio, fa parte di quel percorso che ciascuno deve compiere per autoconoscersi e autorealizzarsi. Quello che inizialmente è mancato a Burgio è il distacco critico e il controllo su certi impulsi interiori. Afferma egli stesso che covava “rabbia” (p. 16) e “livore” (p, 17) con “il mondo intero” (p. 15), verso tutto ciò che gli aveva impedito di realizzare i propri sogni che, erroneamente, veniva identificato come il “sistema” (p. 17). E’ quanto in ogni caso riuscirà a fare alla fine del proprio percorso: “essere uno, non uno dei tanti, uno, che non è, come si dice, il numero più basso dopo lo zero, ma il ‘numero uno’ per eccellenza” (p. 243).
Burgio ringrazierà, alla fine, chi l’aveva spinto a scrivere, a provare a “dipingere con le parole” (p. 242). Grazie però all’autoconsapevolezza a cui è giunto, riconoscerà che “io dipingevo, dipingo e dipingerò sempre ‘in siciliano’ anche con le parole” (p. 243). Il che, fuor di metafora, significa fare i conti con la nativa dialettalità della propria scrittura, che cerchiamo di documentare appresso.
La narrazione di Burgio, innanzitutto, è condotta in prima persona e “sgorga” per così dire a ruota libera, senza quel controllo intellettivo dell’espressione che contrassegna ogni creazione artistica. Non si pretende certo che la sua lingua sia frutto di una riduzione all’essenzialità petrarchistica o, quantomeno, di un manzoniano risciacquo nell’Arno, ma si sarebbero potuti evitare tutti questi modi di dire: “i nodi stanno per arrivare al pettine e ritroveranno tra non poco con il culo per terra” (p. 40); “paesaggi […] di una bellezza mozzafiato” (p. 49) ; “dopo quel gran colpo di culo” (p. 62); “sacramentando con sé stesso” (p. 62); “aveva deciso di tagliare quel cordone ombelicale” (p. 70); “avrebbero litigato di brutto ogni due per tre” (p. 79); “il livello dei decibel rasentava il top della sopportazione” (p. 80); “quel ristorante era per lui un ventre di vacca” (p. 88); “in cerca di nuovi sbocchi aveva saltato il fosso” (p. 129); “trovare un’altra gallina dalle uova d’oro” (p. 129); “spiegando, anche, i perché e i per come aveva detto basta” (p. 198); “raccontandomi la rava e la fava del suo malumore” (p. 202); “fu un tutt’uno tale fu l’immediatezza con cui lo fece” (p. 213); “i loro discorsi sul sesso degli angeli” (p. 219); “nei meandri più intimi della sua anima” (p. 226); “ se è un unto del Signore” (p. 234).
Ci sono poi continui tentativi di riportare la narrazione dalla prima alla terza persona. Così “Beppe”, anche senza riuscirci, si propone come personaggio. Ciò avviene, per lo più, o attraverso l’uso del proprio nome (a es. p. 14 e p. 16), o mediante l’uso di verbi del narrare, come “mi scrisse” (p. 230), “mi disse”, “mi confidò” (p. 242). A volte anche la sintassi non è corretta e la costruzione della frase diventa un ghirigoro paratattico (un esempio per tutti: “stava mettendo in fila tutti quei ragionamenti che gli sarebbero stati utili per fare un modo da rendere quel colloquio per il provino, di cui già aveva deciso a prescindere, l’inutilità”, p. 206). E, naturalmente, anche sul versante terminologico, spesso ci sono improprietà: “salirci sopra” (p. 49); “palma di mano” (rectius: palmo, p. 100); “le comande che il cameriere dava alla cucina” (rectius: le ordinazioni, p. 116); “da come approcciava i discorsi” (p. 122). Ma, quasi a contraltare con esse, ci sono pure dei preziosismi linguistici (“il bubolare dei gufi”, p. 155) o delle rarità terminologiche (“verde ftalo”, da acido ftalico, p. 44).
Più consistenti sono invece quegli errori che concernono i fatti culturali: “i corvi neri che Van Gogh dipinse il giorno in cui diede fine ai suoi sogni di pittore sparandosi un colpo di fucile” (nella realtà con una rivoltella che, di recente, è stata rintracciata arrugginita e messa all’asta a Parigi, nel giugno 2019, alla strabiliante quotazione d 162.500 euro, p. 23); “Carlo Levi […] esiliato in Lucania per tre anni” (p. 50, in realtà solo dal 3 agosto 1935 al 26 maggio 1936); “tanto per citare alcuni titani del Rinascimento” (p. 196, ma Caravaggio appartiene al barocco); e persino ritenere che Platone avrebbe visto “in anticipo quello che sarebbe avvenuto in tutti i paesi nati dalla civiltà greca” (p. 182), sol perché nella Repubblica aveva scritto un brano sulla tirannia.
Infine, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, la “dialettalità” di Burgio è molto discreta nel riportare frasi in dialetto siciliano.
BEPPE BURGIO, L’altra faccia della luna, Altromondo Editore, VI, 2019. € 17,00.