Amo Valeria. Amo il calore del suo corpo, il suo sguardo un po’ perso quando cerca di riordinare i pensieri e il mondo, il suono dei suoi passi in soggiorno, la sua insicurezza, la sua intelligenza, il suo portare uno sguardo laterale in discorsi che altrimenti eviterei. Amo il suo rumore. Il suo accostare le ossessioni personali per farle entrare in risonanza: le lingue e i linguaggi, le forme della mediazione, le grammatiche, le liste vertiginose, le ragazze, le strade di polvere, le stagioni del cambiamento, i suoni che distraggono, …
Amo Valeria. La amo anche quando recide sul nascere i nostri discorsi. Come quando, per esempio, stronca Francesco Guccini con un lapidario “Ah, no… quello no… è inascoltabile!”
Fino a qualche tempo fa, cercavo di difendere quel baluardo del cantautorato italico. Le dicevo che avrebbe dovuto piacerle perché la sua poetica tocca temi che lei sente propri: le carambole lessicali, il gioco linguistico, i dialetti, l’inconsistenza delle parole, il linguaggio che riveste la vita, le narrazioni epiche di scontri quotidiani, le enumerazioni realistiche e magiche, la scelta di lemmi desueti, le età della crescita… E poi i suoni. Le dicevo che Guccini è l’unico dylaniato che questo paese sia stato capace di produrre: un omone senza particolare estro musicale che si circonda di grandi musici che, per lui, vestono di sonorità interessanti canzoni che altrimenti sarebbero esercizi poetici.
Al pensiero laterale, a volte, Valeria affianca la frontalità di un ariete: “Amore… Ma perché non lo ascolti mai, allora?”
È vero. Non ascolto Guccini da decenni. L’ultimo suo disco, che ho comprato e ascoltato con attenzione, è Parnassius Guccinii del 1993. Da allora è passato un quarto di secolo. Amo Valeria, ma non sopporto quando ha assolutamente ragione. E, dannazione!, succede spessissimo.
Venticinque anni fa compravo CD e questo mi data terribilmente. Sono un uomo dello scorso millennio. Pretendo che la mia musica stia su supporti fisici che posso toccare e infilare, con gesti che mi riescono naturali, in un lettore. Ancora oggi frequento negozi di dischi, specialmente quelli dell’usato, gestiti da tipi simpatici che svuotano le cantine e le memorie altrui per pochi spiccioli e rivendono a me garantendosi un ragionevole guadagno. Durante l’ultima sortita in uno di questi bugigattoli, nella sportina riempita con pochi euro ho infilato anche un album doppio dal vivo di Guccini su cui caso e necessità mi hanno fatto inciampare: Anfiteatro Live del 2005.
Mostro con orgoglio il mio acquisto a Valeria. Lei mi sorride e fa ripartire Positive Friction dei Donna The Buffalo, album del 2000 che da settimane si rifiuta di cedere ad altri il posto nel lettore (ho già detto che Valeria vive di ossessioni?). Allora porto il mio disco in auto e lo ascolto lì, durante lo spostamento pendolare mattutino.
L’attacco di Canzone per un’amica è un colpo secco al mio buonumore. Prevedibilmente inizio a pensare “Ah no… quello no… è inascoltabile!”
I primi minuti del mio viaggio per raggiungere l’ufficio sono dannati da un paio di quelle rotonde che rendono molto lente e nervose le mattine degli italiani. L’auto dell’amica del cantautore corre veloce verso la tragedia; la mia è pressoché ferma: mi pare intollerabile. Non ho mai avuto paura di usare il bottone SKIP e passo al secondo pezzo. L’autoreferenzialità dei due brani successivi mi scatena gesti quasi automatici. SKIP. SKIP.
Parte un’altra canzone che, come le due precedenti, non conosco e io atterro sulla chitarra flamenca di Juan Carlos Biondini. Una canzone di viaggi, di scoperte, di mondi nuovi. E poi di regine, di Spagna, di imprese. E ancora di coraggio e pazzia, di fiducia e vino, di approdi e libertà. È la storia di Cristoforo Colombo e mi convinco che Valeria l’amerebbe. Ne amerebbe le parole in caduta, la metrica sghemba, il suono familiare, le mossette vocali di un anziano signore che affastella castelli verbali, arrotolando R come gatti di polvere che si inseguono in sala e biascicando S che sibilano come crotali in un film western. Credo amerebbe addirittura la chiusa moralista del brano.
Mi perdo nei miei pensieri, inscatolato in un’auto che conquista metri di asfalto a fatica. Mi lascio cullare dalle mie ossessioni. Mi ci accuccio. Lascio che il tappeto sonoro di immagini, parole, ricordi e storie, che sempre mi accompagna, renda più lieve la noia dello spostamento mattutino. Ormai la meta è vicina. A quel punto Guccini mi colpisce a tradimento con una canzone che conosco ma che ascolto con le orecchie nuove che ho guadagnato con i miei ultimi venticinque anni di vita: Scirocco.
Mi soffia dentro quel vento “che trasforma una realtà abusata e la rende irreale” e mi riempie “di ricordi impossibili, di confusione e immagini”. E quel vento avvolge il mio rumore e quello di Valeria, li abbraccia e li consola. E mi rendo conto che, ancora, dopo tutti questi anni, Guccini continua a essere tutto ciò che cerco di dire alla donna che amo.