Il suggestivo complesso abbaziale delle Tre Fontane è situato sul tracciato dell’antica via Laurentina, in una piccola valle piena di alberi di eucalipto, altrimenti nota come “Acque Salvie”, nome che secondo alcuni deriverebbe dalla presenza nell’area di sorgenti di acque salutari ancora attive, secondo altri dall’essere stata un fondo della antica famiglia romana Salvia.
L’origine del nome “Tre Fontane”, invece, è strettamente legata ad un episodio molto importante per la cristianità: secondo la tradizione, infatti, proprio in questo luogo, il 29 giugno del 67 d.C. venne decapitato l’apostolo Paolo e la sua testa, rimbalzando a terra tre volte, fece scaturire, nei tre punti di contatto col terreno, altrettante fonti d’acqua.
La storia di questo affascinante luogo contemplativo è molto travagliata: già nella seconda metà del VI sec. Il generale bizantino Narsete annette alla piccola chiesa edificata sul luogo del martirio di San Paolo, un monastero che viene affidato a monaci greci, rifugiatisi a Roma dalla Cilicia, l’area compresa tra la Turchia sud-orientale e l’Armenia, con capitale Tarso, città natale proprio dell’apostolo Paolo, a causa dell’invasione da parte degli Arabi. Nella prima metà del VII secolo l’imperatore Eraclio destina loro la custodia delle reliquie di Sant’Anastasio, monaco persiano martirizzato, fatte giungere a Roma.
Nel corso dei secoli, il complesso monastico assume un’importanza crescente, come testimoniano le numerose donazioni da parte dei Papi tra l’VIII e il XI secolo, fra cui la più curiosa, quella fatta congiuntamente da papa Leone III e Carlo Magno in seguito ad un episodio legato all’assedio della città toscana di Ansedonia. Il Papa, che era sul campo, venne ispirato in sogno a far trasportare davanti alla roccaforte nemica le reliquie di Sant’Anastasio, custodite alle Tre Fontane. Secondo la tradizione, non appena giunte, fecero crollare le sue mura come sconquassate da un terremoto e in segno di riconoscenza, il papa e l’imperatore destinarono al monastero delle Tre Fontane i territori di Ansedonia, Orbetello, Monte Argentario, Marsigliana e l’isola del Giglio.
Nei secoli successivi, nonostante l’assistenza e l’interesse da parte dei papi, il monastero non riuscì a sottrarsi ad una lenta decadenza, finchè Gregorio VII, verso 1080, tentò di risollevarne le sorti affidandolo ad un gruppo di monaci benedettini, nel tentativo di ricostituire una comunità regolata, ma questi lo abbandonarono presto a causa della malaria che imperversava in quei luoghi.
Innocenzo II nel 1140, restaurò il gruppo di edifici, ridotto ormai in stato di abbandono e lo assegnò ai monaci Cistercensi di San Bernardo in segno di gratitudine per il sostegno ottenuto durante lo scisma di Anacleto II, sostenuto invece dai Cluniacensi.
Con l’occupazione dello Stato pontificio da parte delle truppe napoleoniche, le fondazioni religiose vennero soppresse e i monaci cistercensi dopo secoli di permanenza, nel 1808 furono costretti ad abbandonare il monastero che fu saccheggiato di tutti i suoi averi, i reliquiari e i preziosi arredi, donati da papi e regnanti, e ridotto in stato di abbandono. Infine, nel 1868, l’abbazia fu donata in enfiteusi perpetua ai monaci trappisti “della antica osservanza” in cambio, tra le altre condizioni del contratto, di piantare almeno 125.000 alberi di eucalipto per la bonifica della zona malarica, che ancora oggi sono il rigoglioso sfondo alla serenità del luogo sacro.