Save the Children, i Gesuiti, Unicef, UNHCR, World Food Programme, Medici senza Frontiere, Emergency, Oxfam, la Mezza luna rossa, Intersos, Terres des Hommes, la Caritas Ambrosiana e l’Islamic relief. Sono tutti in Siria, assieme a tantissime altre associazioni e ONG, con programmi e progetti di sostegno alla popolazione civile per lo più riversata nei campi profughi e negli insediamenti di fortuna presenti un po’ ovunque nei paesi confinanti: Egitto, Turchia, Iraq, Libano e in Giordania. Qui si trova il più grande, Zaatari: accoglie circa 76.000 sfollati. Negli anni si è trasformato in una città di 5 chilometri quadrati ma non ci sono alberi, solo deserto. In alcuni campi d’estate la temperatura raggiunge i 45 gradi ed in inverno si muore di ipotermia. Poi le piogge: a gennaio 2021 alcuni sono stati allagati e molti profughi hanno perso la vita.
Quando il 15 marzo 2011 è iniziato in conflitto, in Siria vivevano circa 21 milioni di persone. Solo un anno prima, nel 2010, aveva accolto più turisti dell’Australia. La guida Lonely Planet ne elogiava le bellezze storiche, le più “imponenti del Medio Oriente” e annotava che “forse il governo siriano non è tra i più miti al mondo, ma la gente è molto generosa e ospitale. Appena vi abituerete alle stranezze che sempre si riscontrano in culture diverse dalla propria, probabilmente in Siria vi sentirete sicuri quanto a casa vostra”.
Oggi però la Siria è un paese devastato. E non esistono aggettivi abbastanza potenti per descrivere la situazione.
Le immagini del prima e del dopo sono impietose e ci raccontano il dramma della diaspora di circa 5,5 milioni di persone che hanno abbandonato il Paese, di 6,6 milioni di rifugiati e di 6,7 milioni di sfollati interni spinti in una direzione o in un’altra per trovare riparo dalle incursioni nei villaggi.
Non bastano neppure le immagini simbolo – quelle che i media occidentali hanno imparato ad usare per sintetizzare una storia che va avanti da troppo tempo e sulla quale tutto è stato raccontato- a descrivere la tragedia umanitaria tra le più gravi della storia, anzi hanno avuto l’effetto imprevisto di anestetizzare i nostri cuori e i nostri occhi. Chi ricorda il piccolo Aylan Kurdi? Un bambino di appena tre anni, vestito con gli abitini buoni per andare incontro ad una nuova vita…affogato a pochi metri dalla salvezza. Era il 2 settembre 2015 e il cessate fuoco nella sua terra sarebbe giunto solo 5 anni più tardi.
Eppure, proprio nell’anno della “stabilizzazione del conflitto”, il 2020 appunto, si sono registrati 157 attacchi armati ad altrettante scuole siriane e qui l’elemento che sbalordisce è che in un paese martoriato si cerchi ancora la normalità della vita di prima e quindi che si provi a tenere aperte anche le scuole dove possibile. Sempre nel 2020 i bambini rimasti uccisi in attacchi di vario genere sono stati 1.454. Nei campi profughi aumentano i suicidi e uno su 5 è compiuto da un bambino. Si, in Siria anche i bambini si tolgono la vita e il fatto che l’80 per cento di loro rischi di non avere mai un adeguato grado di istruzione passa del tutto in secondo piano. Spiega Save the children: “l’aumento di questo fenomeno rientra in un quadro di crescente disagio della popolazione di quest’area del Paese, il nord-ovest della Siria, intrappolata in una spirale di povertà, violenza, mancanza di istruzione, violenza domestica, matrimoni precoci, relazioni interrotte e bullismo, in comunità che sono state piegate da dieci anni di conflitto”.
All’emergenza della guerra, all’emergenza psicosociale si aggiungono anche quella dell’insicurezza alimentare e dell’accesso all’acqua potabile e come se non bastasse in questi giorni è arrivato anche il Covid che, come sappiamo, non si fermerà davanti a nulla. Quel che resta degli ospedali è del tutto insufficiente a prestare soccorso, figurarsi il lusso di una terapia intensiva.
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