Roma – Mercoledì 7 giugno si è tenuto il convegno sulla “Salute Mentale dei Migranti”presso l’Aula Agostini dell’INMP – Roma. La giornata di lavori, svolta secondo un approccio multidisciplinare e multilinguistico (grazie al fondamentale contributo degli interpreti messi a disposizione dall’organizzazione dell’INMP), ha visto una larga partecipazione di autorevoli esperti nel settore, giornalisti, ricercatori e rappresentanti delle autorità statali.
Come da programma, la dottoressa Concetta Mirisola, direttore generale dell’INMP, ha aperto l’incontro con una presentazione dell’INMP e dei tre pilastri fondamentali caratterizzanti le attività dell’istituto: assistenza, ricerca e formazione su tutto il territorio. Grande enfasi è stata posta sull’obiettivo principale dell’INMP, ossia di occuparsi di diseguaglianze attraverso un approccio olistico e multidisciplinare. La dott.ssa Mirasoli ha, infine, concluso l’intervento con un incoraggiamento alla cooperazione e a “lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi” e garantire i diritti sanitari di tutte le persone.
L’On. Livia Turco, presidente del Consiglio di Indirizzo dell’INMP (già Ministro delle politiche sociali e Ministro della salute), ha poi aggiunto che “l’approccio alle persone migranti è un approccio alla persona” fondato sulle sue caratteristiche personali e ha sottolineato l’aspetto integrato dell’INMP, cioè occuparsi di salute mentale dei migranti e in generale di tutti.
Ilprofessor Alberto Siracusano, ordinario di psichiatria all’Università di Tor Vergata, ha successivamente presentato, in qualità di Presidente, il prossimo convegno del SOPSI (Società Italiana di Psicopatologia) poiché legato al tema delle diseguaglianze (“psicopatologia delle diseguaglianze” è infatti il titolo del Convegno SOPSI di Febbraio 2018) e introdotto l’argomento in esame attraverso un affascinante intreccio tra salute mentale, ricerca e cultura. Ha esordito richiamando l’attenzione sulle difficoltà di mantenere un interesse costante sul tema della salute mentale e di quanto essa abbia “veramente bisogno di qualcosa in più”. D’altronde, se non si investe nella salute mentale alla ricerca di situazioni di benessere “si andrà incontro a una società sempre più squilibrata”. In questo passo, il prof. Siracusano ha voluto sottolineare l’importanza di investire nella società giovane, affrontando soprattutto i problemi degli adolescenti concernenti droga, situazioni depressive e di disagio psicologico anche in situazioni familiari ed economiche “solide”. Ha infine concluso con un monito: “dobbiamo riuscire a creare cultura e a creare salute”.
Il convegno è entrato quindi nel vivo con la Lettura Magistrale del professor BhugraDinesh, professore emerito di salute mentale e diversità culturale presso il King’s College di Londra e presidente dell’Associazione Mondiale di Psichiatria. La lectio, tenuta in lingua inglese, ha avuto inizio con il racconto dell’esperienza migratoria personale del prof. Bhugra, in pieno stile “British”. Pakistano di origine, ha vissuto i problemi sociali e di procedura dei migranti attraverso i suoi genitori, emigrati nel 1979 nel Regno Unito. I suoi studi si sono quindi concentrati sull’incidenza delle malattie mentali sui migranti di seconda e terza generazione. La sua relazione ha avuto inizio con una trattazione sui motivi e sulle reazioni dei migranti alla migrazione, analizzando i fenomeni dell’acculturation e della deculturation (orientamento e adeguamento verso un altro gruppo sociale o verso il proprio gruppo) e ponendo enfasi sul ruolo fondamentale della comunicazione e del supporto sociale nel processo di adeguamento del migrante nella nuova società. Il concetto di cultura viene utilizzato per affrontare la questione delle “microidentità”: maschere e particolarità del migrante dipendenti in parte da età, genere e lavoro e in parte dal soggetto con cui si interfaccia (es. un dottore maschio o femmina, giovane o adulto potrà trasmettere maggiore/minore fiducia al paziente a seconda della propria cultura). Infatti, “le persone non nascono con una cultura, ma in una cultura”, conferma Bhugra, e tale cultura esprime per il medico una traccia fondamentale per analizzare la salute del paziente.
Ha quindi esposto la distinzione tra stato di malattia, così come definito dalla società, e impatto sociale che può generare malattie mentali, indicando degli studi svolti nel Regno Unito durante gli anni 70 e nel 2006 sui disturbi psichici delle popolazioni migranti di colore dei caraibi e dell’Africa. I risultati hanno portato il prof. Bhugra a sostenere che i problemi psichici non sono da addurre a considerazioni di tipo etnico o migratorio, perché anche le seconde e terze generazioni presentavano gli stessi problemi e la maggior parte delle prime generazioni (circa il 50%) mostrava problemi dopo 10 anni di permanenza. Egli sostiene la sua idea che si fonda sulla costatazione di uno svantaggio socio-economico dei migranti fondato su quattro fattori sociali: la disoccupazione, la discrepanza tra obiettivi raggiunti e aspirazioni, la congruenza culturale e la densità etnica. Da questo presupposto giunge alla definizione del problema di salute mentale dei migranti in termini di conflitto tra cultura socio-centrica e cultura ego-centrica, che genera uno “shock culturale”. Tale shock emerge quando una persona socio-centrica che vive in una società socio-centrica si sposta in una società ego-centrica e si manifesta principalmente in reazioni definite autolesionistiche (il concetto di autolesionismo, così come concepito da una società ego-centrica, è considerato in questo contesto non corretto, poiché la lesione fatta a se stesso è compiuta da parte di un soggetto socio-centrico e quindi diretta nei confronti della propria famiglia).
Il prof. Bhugra sostiene quindi che la competenza culturale significa capacità di un dottore di analizzare il paziente nel suo contesto sociale originario, poiché una malattia è considerabile (e quindi risolvibile) in modo diverso a seconda della società che la affronta: dall’approccio soprannaturale, a quello medico-somatologico, agli approcci misti e infine a quello sociale, sostenuto dal professore.
Cosa deve fare quindi il medico? Secondo Bhugra, egli deve chiedere al paziente cos’è che non va e cosa si può fare secondo lui. Venire incontro alle sue richieste e non farsi bloccare dai propri pregiudizi. Mettere il paziente al centro e comprendere la sua cultura, considerando i limiti e i blocchi istituzionali. È una questione di sensibilità culturale: essere consapevoli dell’identità culturale del paziente, di come esso si calava nella sua vecchia società e di come vive nella nuova. I medici devono cambiare il proprio modo di pensare, non limitandosi ai fattori biologici, ma verificando gli aspetti culturali, ambientali e di vita quotidiana. Il Prof. Bhugra ha aggiunto che“bisogna essere consapevoli dei colori (vedere le microidentità) e da medici comprendere i nostri limiti culturali” e ha concluso la lezione spronando i suoi colleghi a “personalizzare la psicoterapia in funzione delle esigenze dei pazienti”.
Dopo un breve intervallo, per nutrire anche il corpo oltre la mente, hanno avuto inizio le successive relazioni con un focus sulla situazione italiana.
Il primo relatore è stato il dottor Massimiliano Aragona, membro dell’Unità Operativa di Salute Mentale dell’INMP, il quale ha analizzato le forme di disturbi mentali dei migranti in Italia distinguendo tra traumi in fase pre-migratoria o durante il viaggio e traumi successivi all’arrivo. Queste ultime, a differenza delle prime, sono meno conosciute e meno considerate sia a livello mediatico che medico. Il dottor Aragona definisce tali situazioni di “ritraumatizzazione secondaria” e le localizza temporalmente nella fase immediatamente successiva all’arrivo. Infatti, l’arrivo è considerato dal migrante come la realizzazione di un obiettivo e un miglioramento rispetto alla situazione pregressa. Però dall’entrata nei centri di accoglienza ha inizio la fase inattesa di stand-by (vita statica) contraddistinta da noia, vuoto e paura di essere rimpatriati, che aumenta in modo significativo il presentarsi di malattie mentali (principalmente Disturbo Post Traumatico da Stress – DPTS). Ha quindi richiamato la necessità di una diagnosi differenziale delle reazioni psicotiche dei migranti con differenti programmi di trattamento, in modo da riconoscere i casi di disturbo da somatizzazione (in cui il migrante lamenta un dolore fisico per manifestare un male psichico) e quei disturbi che possono essere legati alla cultura. In conclusione ha voluto sottolineare come molti disturbi mentali siano in realtà reazioni alle difficoltà di vita che incontrano i migranti. Quindi migliorando i livelli e i modi di accoglienza è possibile diminuire l’incidenza di tali disturbi.
È intervenuto poi il professor Antonio Ventriglio del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Foggia con una relazione sull’adattamento culturale dei migranti. La cultura viene considerata la prima questione da affrontare in fase di adattamento (adjustment), poiché dal momento dell’arrivo la consapevolezza culturale del migrante comincia a vacillare e i sensi di colpa iniziano a prendere il sopravvento. Il Prof. Ventriglio ha analizzato le ragioni delle reazioni psicotiche maggiormente riscontrate nei migranti, evidenziando il “cultural bereavement” e il “cultural shock”. Con il primo concetto si intende il lutto, la perdita che se internalizzata porta a disturbi psichici nel soggetto, mentre se esternalizzata a episodi di rabbia e violenza. Il secondo indica la messa in crisi della propria identità, dovuta al sentimento di rifiuto da parte della comunità. Questi elementi possono spiegare la radicalizzazione e il terrorismo, soprattutto in persone vulnerabili e senza una “cultural congruity” (es. individuo socio-centrico in società ego-centrica). Secondo il professor Ventriglio, attraverso politiche di integrazione ad hoc si può intervenire nel procedimento di acculturazione ed evitare il verificarsi di queste situazioni. Ha, inoltre, sottolineato l’importanza dei medici (soprattutto nel SSN) di lavorare affiancati da interpreti, poiché l’alto tasso di NOS (psicosi non specificata – 40%) è dovuto essenzialmente a differenze linguistiche.
Il dottor Roberto Averna, neuropsichiatra infantile all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (OPBG), ha focalizzato l’attenzione sulla salute mentale dei minori migranti nell’esperienza dell’OPBG. Inizialmente ha evidenziato alcuni dati fondamentali, tra cui i numeri concernenti l’epidemia mentale in atto tra le popolazioni migranti, caratterizzata da una scarsa risonanza mediatica. Su 1.2 milioni di richiedenti asilo in UE, circa la metà soffre di disturbi mentali e nei giovani la perdita di “self-esteem” (autostima) è ai primi posti. L’OPBG ha adottato due approcci: uno telefonico e l’altro di mediazione culturale. Dal giugno 2014 sono stati effettuati più di 600 accessi nel reparto ricoveri, l’11% migranti (1% minori non accompagnati, di cui l’80% maschi) di provenienza variegata e di età compresa tra i 14 e i 15 anni (leggermente al di sopra della media dei minori italiani – 11-14 anni). Le diagnosi più frequenti sono state disturbi dell’umore, disturbo post traumatico da stress e psicosi legate a traumi della vita. Il Dr. Averna ha riscontrato criticità nella mancanza di prevenzione da parte delle famiglie migranti riguardo i disturbi psicotici e l’abuso di sostanze, riconoscendo la necessità di aumentare la sensibilizzazione dei migranti riguardo la salute mentale. Inoltre, ha sottolineato quanto le lungaggini dei procedimenti di identificazione e di nomina del tutore per i minori non accompagnati sia un grave deficit che va totalmente a discapito dei pazienti minori.
Infine, il dottor Gennaro Franco, responsabile dell’Unità di Mediazione Transculturale dell’INMP, ha tenuto un intervento appassionato e di grande trasporto sul ruolo dei mediatori nella realtà dell’INMP. Ha esordito analizzando la concezione storica delle sintomatologie, partendo dai migranti meridionali in Svizzera sino ai moderni migranti. In questo contesto il Dr. Franco vede nei mediatori culturali la soluzione a molti problemi dei migranti in ambito sanitario. Infatti il mediatore può capire il paziente, soddisfare le sue esigenze non legate alla medicina tradizionale e al tempo stesso farlo curare in modo efficacie. La figura del mediatore culturale, quindi, permette di promuovere l’intero processo di codifica e di realizzare la vera accoglienza. L’approccio transculturale è visto come il punto di incontro tra paese ospitante e luogo di provenienza e l’interazione può assumere le seguenti forme: pratico-orientativa, linguistico-comunicativa (capire il senso e non solo le singole parole), psicologico-sociale. L’INMP attualmente dispone di ben 24 mediatori culturali che coadiuvano in ogni sua fase il lavoro dei medici nell’ambulatorio di istituto. Ricordando le parole chiave complessità e cambiamento, il Dr. Franco, nel concludere, tiene a evidenziare il ruolo fondamentale del mediatore culturale nel decodificare i problemi di vita e di salute del migrante e quindi nel raggiungere il risultato basilare dell’effettuare una buona diagnosi.
A conclusione dei lavori, il direttore generale Concetta Mirisola segna la via per il futuro, richiedendo l’adozione di una norma per la mediazione in campo clinico e riconoscendo che “solo dalle sinergie e dalla partecipazione di tutti gli attori istituzionali si possono portare avanti strategie a favore del diritto alla salute per le popolazioni migranti e povere, e per questo motivo esiste un istituto nazionale” l’INMP.