Roma – “L’Italia sarà davvero ponte tra l’Africa e l’Europa solo se coinvolgerà gli africani, le loro associazioni nel continente e quelle della diaspora che sono qui”. Abderrahmane Amajou va dritto al cuore, anche richiamando un’immagine: alcuni scranni vuoti al Senato il 29 gennaio, alla presentazione del Piano Mattei, l’iniziativa del governo italiano che guarda al continente a sud del Mediterraneo. “Le diaspore non sono state invitate eppure lo spazio in aula c’era, lo avete visto tutti” denuncia Amajou. “Si potevano coinvolgere altre realtà ma è stato deciso di non farlo”. Accusa non vuol dire chiusura. Lo sottolinea più volte, Amajou, di fronte alla platea dei partecipanti al Summit nazionale delle diaspore. All’Auditorium Antonianum c’è la quinta edizione di un percorso cominciato nel 2017 e che anno dopo anno è cresciuto con nuove alleanze. Questo poi è un momento speciale: nel dicembre scorso è nato il Coordinamento italiano delle diaspore per la cooperazione internazionale (Cidci), una piattaforma che conta già su nove reti territoriali regionali.Amajou parla a nome delle associazioni del Piemonte. Il suo messaggio è condiviso però dal presidente nazionale, Bertrand Honoré Mani Ndongbou. “Siamo stati molto sorpresi dal fatto che nella governance del Piano Mattei non ci fossero la diaspore” dice l’attivista: “Questo è un vulnus importante”.Secondo Ndongbou, “è chiaro che bisogna lavorare insieme con il governo per far sì che le voci delle diaspore e degli africani siano presenti e che si trovino le soluzioni alle problematiche attraverso i progetti migliori”. Il presidente è convinto che l’obiettivo sia il rafforzamento della tenuta sociale, a livello globale e locale, con un impatto sulle migrazioni. “Bisogna far sì che i nostri connazionali abbiano una scelta in più per potere restare nel continente africano” sottolinea Ndongbou. “Servono l’approccio dell’ascolto e dell’umiltà nel dare spazio a chi vuole contribuire perché il Piano Mattei sia un successo, per l’Italia ma anche per l’Africa”. Al Summit c’è chi gli risponde, rilanciando. Lo fa Stefano Gatti, che in Farnesina guida la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs). “Presentate proposte concrete, vogliamo vederle una per una” l’appello ai partecipanti. “Abbiamo una Dgcs che dal primo gennaio è stata rafforzata con due uffici in più, uno dei quali dedicato al rapporto con le organizzazioni della società civile”.Il punto chiave, secondo Gatti, è questo: “Le diaspore sono parte della società civile e del sistema Italia”. Poi, sul Piano Mattei: “Non c’è nessuna esclusione, siamo vostri compagni di strada”. È citato poi un bando appena approvato, di un valore di 180 milioni di euro. “La prima sfida è per le associazioni che possono presentarsi” dice Gatti: “Vengano con proposte importanti”. Raccoglie la sfida Cleophas Adrien Dioma, presidente di Le Reseau. Oggi l’associazione è al fianco dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) in ‘Draft the Future! Towards a Diaspora Forum’, un progetto sostenuto dalla Cooperazione italiana.La parola chiave, anche qui, è partecipazione. “Ero nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo ed ero l’unico, mi sentivo solo” ricorda Dioma, che in questo organismo in Farnesina è responsabile del gruppo Migrazione e sviluppo. “Dovevo andare verso le comunità e allora oggi ringrazio le diaspore: si sono messe a disposizione, da Crotone a Bolzano, da Palermo a Udine; c’erano persone che facevano cose piccole e sognavano di fare cose grandi”. La premessa è stata l’entrata a regime della legge 125 del 2014, quella che ha riformato il sistema della cooperazione italiana. Un altro riferimento è la nascita del Cidci. “Oggi non sono più solo” sottolinea Dioma. “Il Coordinamento è nato dalla volontà delle reti territoriali, anche se non è facile mettere insieme sensibilità diverse, con radici magari in Marocco, Perù, Pakistan o Cina”. A sottolineare il contributo delle diaspore è anche Marco Riccardo Rusconi, direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics). Nel suo videomessaggio al Summit riprende il titolo della quinta edizione soffermandosi sul significato di due parole: inclusione e impatto.”La prima vuol dire partecipazione attiva e rappresentativa di tutti gli attori in tutte le fasi di un’iniziativa, dalla ideazione alla progettazione fino al disegno e all’esecuzione” sottolinea Rusconi. “La seconda significa che non guardiamo solo alle realizzazioni concrete e materiali ma ai risultati che queste attività portano nel tempo, nel medio e nel lungo periodo, che devono essere concreti e misurabili”.Il direttore si rivolge direttamente ai partecipanti al Summit. “Voi”, sottolinea, “siete un ponte tra le diverse comunità e società e grazie a voi si può rafforzare quello scambio di idee, di progetti e di conoscenze che porta a una qualità migliore della cooperazione allo sviluppo”. Sulla stessa linea Laurence Hart, coordinatore dell’Ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). “Siamo tutti in cerca di meccanismi innovativi che abbiano un impatto nei Paesi di origine” sottolinea il responsabile, “e partiamo dal presupposto che le diaspore possono aiutare il processo di co-sviluppo”. Secondo Hart, “le politiche di cooperazione devono coinvolgere le diaspore perché il co-design, il design congiunto, permette diraggiungere risultati più efficaci”.Sul palco dell’Auditorium sale poi Ana Estrela, vicepresidente del Cidci, pugliese e afrobrasiliana. “Sono parte”, scandisce, “di questa grande diaspora mondiale, conseguenza di una tratta transatlantica che ha colpito 12 milioni di persone, il 60 per cento delle quali giunte in Brasile”.Oltre il passato c’è il futuro, tutto da disegnare. “Sin dalla prima volta che ho varcato la plenaria del Summit nel 2017 ho capito che davanti a noi c’era l’opportunità di vedere riconosciuto un nostro diritto, che però era allo stesso tempo un dovere” dice Estrela. “È un dovere esserci perché non si può desiderare il cambiamento senza poi partecipare in modo attivo al processo di sviluppo”. . |