Pierfranco Bruni
Avevo quindici anni. In un cinema di paese davano “Anonimo veneziano”. Per più sere sono andato a vederlo. Prima insieme alla ragazzetta dell’ora. Poi più volte da solo.
Soltanto qualche anno dopo, anni dell’università, mi sono incontrato con il romanzo. Forse era il 1977. Letto in più edizioni compresa la introduzione dello stesso scrittore. Giuseppe Berto. Il 1978 conobbi Francesco Grisi.
Era il 30 ottobre. Mi disse che era scomparso un suo caro amico ed avrebbero celebrato una messa in suffragio. Ci demmo appuntamento alla Chiesa degli Artisti. Roma. Era scomparso Giuseppe Berto.
Quello scrittore di una Venezia grigia e dalle acque in ombre con le gondole in silenzio. Quella Venezia di una Piazza San Marco dentro un vento di laguna.
Ebbene quel romanzo ha sempre accompagnato la mia vita. Quello scrittore mi ha scavato tra le parole e il linguaggio del romanzo unico che recita il male oscuro. Quell’anonimo veneziano mi ha aperto diverse finestre.
Da Proust ai versi di un piccolo libro come L’Ecclesiaste che si ascoltano con echi indelebili. Berto rimarca con questo romanzo di vita e di morte, di amore e tempo ciò che sarà il suo ultimo romanzo emblematico e che rimarca la voce di un Giuda che dialoga con Cristo.
Credo che in Anonimo veneziano ci siano già alcune premesse fondamentali. Ma Berto era consapevole che il percorso biblico ha delle voci fondanti non solo per costruire un romanzo ma soprattutto per comprendere il senso della morte nella condizione umana.
Negli anni Settanta del 1900 sia il film sia la sceneggiatura sia il romanzo sono centrali per chiudere definitivamente e finalmente una letteratura che ancora si affidava alla rappresentazione del reale. I due personaggi sono metafore della vita e della morte con in mezzo un figlio. Infatti il concerto sarà dedicato al figlio. Un figlio giglio che il musicista non conosce ma che non smette di vivere dentro la sua anima.
Cosa sarà mai il concerto di Oboe? La lacerazione del cuore. Enrico e Valeria. Enrico dirà a Valeria: “Sarà andato tutto a rotoli, ma nessuno ha mai fatto l’amore come noi due”.
Ma si parte già con citazione tragica: ““Questo popolo per mille anni lottò coraggiosamente per la vita, poi per altri trecento anni non fece che invitare la morte” (John Ruskin, Le pietre di Venezia).
Il tragico non è soltanto la morte di Enrico. È tutto il romanzo un paesaggio tragico. Come: “Non mi leggi in viso i segni del destino? La gloria, ad esempio. O anche la morte. Tanto, l’una vale l’altra, almeno per chi crepa”. Oppure: “Ciò che stava suonando, non era solo dolore per la morte di un uomo, era disperata rassegnazione per la morte d’una città e forse di tutto ciò che è vissuto. In una desolazione tanto vasta e perfetta, non c’è posto per piccole storie personali”.
Non smetto di portare con questo romanzo. Mi appartiene profondamente come la vita stessa, come i miei stessi libri, come le mie stesse poesie. È stato ed è un mio vademecum. Completamente altro rispetto a Love story di cui in quegli anni si è discusso. Berto è Berto. Ho letto quel libro e ho visto quel film ma non riesco a leggere alcuna comparazione se non la morte per malattia.
Tutto il romanzo di Berto è una condizione di morte e di destino. Proprio il destino è un altro sentiero che Berto rimarca.
Francesco Grisi ebbe a dire: “Berto aveva sempre paura di entrare nella vita. Era un groviglio di contraddizioni. Trovata una verità la metteva subito in dubbio. Ma soffriva. La sua angoscia era quella di chi è destinato a navigare sempre. Mai un porto dove fermarsi”. Destinato a navigare sempre. Infatti, è proprio ciò che lo porta in Calabria dove è sepolto.
L’Ecclesiaste è fondamentale. Anche se Enrico dirà: “Chiunque quando gli capita una cosa del genere pensa al suicidio: la vita ti vuol fregare e tu con un anticipo magari del tutto ridicolo la freghi… È essere il più forte, quello che decide”. Fa i conti con la morte. Quella che verrà dalla malattia.
L’iultima scena e le ultime pagine si chiudono con l’alzata del tono della musica e dei toni del concerto. Insomma. È il romanzo dei miei anni giovanili. Resta il romanzo dei miei anni di oggi.
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Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Per il Ministero della Cultura è attualmente:
• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;
• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;
• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.
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