Giuseppe Berto il più importante scrittore del secondo novecento oltre il realismo

...Cosa sarebbe l'opera di Dio senza la capacità della gloria? Non accolgo la questione del realismo...La vita in letteratura può essere realismo? Il proprio forse. Ma non realismo come genere letterario. È la confessione che diventa genere letterario. Giuseppe Berto ha segnato la strada lungo quelle parole alle quali bisognava dare un senso tragico senso della vita nel raccogliere la morte in un anonimo veneziano che è storia d'amore ma anche musica... Il 27 dicembre del 1914 nasceva Giuseppe Berto. Un anniversario che mi riporta a riscrivere una pagina su uno dei pochissimi, rarissimi e originali, scrittori forti e imponenti del novecento

Pierfranco Brruni

Il 27 dicembre del 1914 nasceva Giuseppe Berto. Un anniversario che mi riporta a riflettere e riscrivere una pagina su uno dei pochissimi, rarissimi e originali, scrittori forti e imponenti del novecento.
Lo scrittore nella necessità di scrivere si racconta.

I luoghi e i personaggi costituiscono non soltanto un io narrante ma la ricerca di riconoscersi. La scrittura è terapia. Oppure: “Se la vita fosse fatta soltanto di sogni e di fervori chiunque purché dotato d’un po’ di fantasia potrebbe campare beato e contento…” (“La cosa buffa”, Giuseppe Berto).

Giuseppe Berto ha segnato la strada lungo il percorso delle parole. Di quelle parole alle quali bisognava dare un senso. Tutta una vita passa attraverso le parole o si condensa nel cerchio del silenzio quando le parole stesse non dicono altro che il già vissuto il già detto il già conosciuto. Un uomo che fa della scrittura una vita e non sa se sia una disgrazia o una grazia. Ovvero la dissolvenza della grazia. C’è di mezzo quella “dis…” che dice tutto.
Forse per Berto sarebbero da prendere in considerazione entrambe le vie. Dalla visione delle opere che compie Dio alla consapevolezza di una rassegnazione con la quale si arriva accettare che c’è un tempo per tutto e anche per raccogliere la morte in un anonimo veneziano che è storia d’amore ma anche musica.

Cosa sarebbero Venezia e la laguna senza la musica? Ma cosa sarebbe l’opera di Dio senza la capacità della gloria? Il suo ultimo romanzo, appunto quella gloria, è la purificazione ma anche la forza di tradurre il tradimento di Giuda in amore di ubbidienza. Una confessione che giunge nel momento in cui c’è un tempo per tutto. Il filo che lega le opere di Dio ad alcuni passi di anonimo veneziano e alla glorificazione dell’incontro tra Giuda e Cristo è un intreccio fondamentale che segna uno dei perni centrali di tutta la scrittura di Berto.
Così come il suo tempo della giovinezza in cui il cielo è rosso che è sostanzialmente il narrare nella tradizione del suo vissuto insieme a quel diario in cui si racconta quando vestiva la camicia nera. Non credo ci sia “realismo” piuttosto autobiografia. Se è autobiografia non è realismo. Perché il tutto resto diario e quindi vissuto con particolari tra funzione narrativa e vita.
La vita in letteratura può essere realismo? Il proprio forse. Ma non realismo come un genere letterario. Perché è la confessione che diventa genere letterario.

Neppure nel personaggio del brigante si incava il realismo. Perché è così intenso il ruolo del personaggio da farlo sembrare destino e avventura.
Non accolgo la questione del realismo perché i personaggi superano abbondantemente gli ambienti e le cosiddette geografie della denuncia. D’altronde proprio nella finzione di quella che sarà la fantarca il capovolgimento del reale è totale. C’è il vero misterioso dello scrittore. Ma è ben altra cosa. Altrimenti non diventerebbe tutto “buffo” come l’amore raccontato in ciò che viene chiamato proprio cosa buffa.
Così il suo dialogare con il cane. Si apre uno squarcio importante sulla solitudine che viene ad essere risolta soltanto dialogando simbolicamente segmentato con il cane. Berto comunque è lo scrittore del male di vivere. Ognuno ha una propria “Passione” quella passione secondo noi stessi è un vissuto mai virtuale ma tragico. L’oscuro male è il bisogno di identificarsi. Con sé stesso, con il padre, con la donna, con la scrittura, con il mare, con una stanza nella quale c’è lui e la scrittura. Ancora una volta entra nel gioco la confessione.
L’oscuro male è l’impossibilità di confessarsi perché manca la storia. Non c’è la storia. È troppo potente quell’io che scava nel proprio essere vita. Un labirinto che chiamiamo depressione? Forse sì forse no. Il segreto sta proprio qui. E di segreti lo scrittore vive. Segreti che si fanno mistero in un orizzonte che potrebbe fare intravedere un limite ma anche di un limite i cui orizzonti sono visibili ma non rintracciabili.

L’oscuro male ha in fondo il fascino dell’infinito. Come il suo decidere di andare a vivere in una Calabria dove il mare è isola e Capo Vaticano è una àncora. Ma da questo luogo il mare è un infinito anche se di notte le luci della Sicilia si toccano con lo sguardo. Il tempo dell’attesa c’è tutto. C’è dunque anche qui un tempo per tutto. Berto è lo scrittore che ha fatto della finzione dello scrivere la verità.
Ma quale è la verità? Ritorniamo dunque alla pietra miliare delle parole di Giuda dette a Cristo. Ovvero di “…coloro che non credono in Dio, ma sentono l’angoscia di non crederci”, come disse lo stesso Berto. Trovare una spiegazione o addirittura una “giustificazione” o soltanto un tentativo di discussione mi sembrerebbe violare la scrittura di Berto. Perché? Soprattutto su questioni di essenza mistica, in questo caso, e non teologica assolutamente, è la parola dello scrittore che resta. In particolar modo di uno come Berto il cui principio portante è la irregolarità e il non ovvio.

Giuseppe Berto

La sua unicità sta proprio in questo. Nel finale in cui si ascolta: “nell’opera della redenzione qualcosa non ha funzionato”. O meglio il tutto significa ciò che vuole significare. Ognuno dua un significato che meglio sia opportuno per sé. Entra, come già sollevato, sulla scena il tragico. Ma tutta l’opera di Berto non ha forse la forza del tragico e dell ironico?
C’è in lui una condensazione della tragedia che avvolge i personaggi. Come nel tragico vissuto a Venezia un cui la morte incombe tra il personaggio e la città: “Non mi leggi in viso i segni del destino? La gloria, ad esempio. O anche la morte. Tanto, l’una vale l’altra, almeno per chi crepa”.
Un tragico senso della vita che abitava nel romanzo del 1964: “…E io dico con l’anima in tumulto perché non rendi poi quel che prometti allor, Dio santo non ho neanche quattordici anni e ho già una così grande voglia di morire, cosa faccio al mondo io cosa faccio, amo amo amo così miseramente e immensamente che non ho coraggio di fissare un oggetto per il mio amore”. E che si ritrova nell’ultimo: “…Il regno si avvicinava, come Tu predicavi, e io nella mia oscurità impazientemente attendevo il tempo in cui il male non sarebbe più stato necessario per rendere manifeste le opere di Dio”.
Le opere di Dio! E le nostre? In quel l’oscuro male tutto esplode o si implode: “Quanti peccati Dio mio quanti peccati, non finirò mai ma gli altri perché non scontano, questo vorrei sapere perché non scontano gli altri, davvero vorrei sapere se io sono tra tutti gli uomini il più grande peccatore oppure se qualcosa non funziona proprio contro di me in questo deforme ingranaggio di giustizia, pur che ci sia giustizia e non caso e non caos, dove troviamo le ragioni metafisiche vorrei sapere, dove ci può essere un Dio giustizia così sbagliato poiché vi è bene chi più di me odia e calpesta e ha il cuore arido, ecco dunque che non sarebbe possibile un ingranaggio trascendentale neppure riferito al padre mio, gli dei hanno un’imperturbabilità remota insegnava Lucrezio”.

Dx gli scrittori Giuseppe Berto – Francesco Grisi


Una vita a superare il peccato? Sin dalla nascita? Il quadro metafisico si riflette in uno specchio. Ma questo quadro cosa raffigura? La pena? La passione? L’essere in vita? La consolazione? Il metaforico viaggio? Restare nel dubbio?
Se il tragico e l’ironia sono componenti del suo scrivere il dubbio è la certezza più vera di una inquietudine resa vita oltre la storia e rivelantensi nella parola non di una esperienza bensì di un vivere tra la ricerca della solitudine e la perdita. Perché si perde sempre anche quando ci si illude di poter attraversare, indenni, l’anima. Non serve alcuna “proposta per prevenire”. C’è un tempo per tutto. Perché “…cerco intorno senza trovare uno scopo per la mia vita e solo leggendo mi sembra di vivere”.

Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Per il Ministero della Cultura è attualmente:

• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;

• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;

• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.

Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.

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