Il centenario della nascita di Yukio Mishima. Intrecciandolo con Pirandello e Marguerite Yourcenar

Dall'eroica disciplina alla confessione della maschera tragica...


di Pierfranco Bruni*

Si vive nella intermittenza delle confessioni. Tra la vita e la morte. Quando la confessione diventa una maschera il dato è già lanciato. Ma cos’è la maschera? Ciò che Mishima sottolineó: “Nonostante avessi il cuore colmo d’inquietudine e d’una pena indicibile, atteggiai la faccia a un sorriso sardonico, sfrontato”.
L’inquietudine e il volto. Il volto si specchia nello specchio o nell’anima? Mishima resta il centro dell’esistente nell’abbaglio dell’esistere. O si va oltre? Siamo al centenario della nascita di Yukio Mishima pseudonimo di Hiraoka Kimitake; (Tokyo, 14 gennaio 1925 – Tokyo, 25 novembre 1970). Uno scrittore soltanto? Non direi. È molto altro.
In “Lezioni per giovani samurai” scrisse: “Generalmente s’inizia a dedicarsi all’arte dopo aver vissuto. Ho l’impressione che a me sia accaduto il contrario, che io mi stia dedicando alla vita dopo avere iniziato la mia attività artistica”. È certo che è altro. È anche linguaggio. Perché le epoche delle lingue costruiscono le epoche della letteratura in un parametro metaforico che può leggersi sia attraverso i segni estetici sia grazie ad una interpretazione che è, puramente, semantica. Penso a Luigi Pirandello.
In Luigi Pirandello è come se si intrecciassero i linguaggi, che nascono in quel mondo mediterraneo, arabo – islamico, che è la sua Girgenti e si fa, comunque, senso del tragico che diventa estetica della ricerca del personaggio. Il personaggio uomo diventa il personaggio maschera.
La maschera, nel suo mondo greco, è persona. Ma è anche l’incipit della teatralizzazione che si ascolta non soltanto nel teatro definito tale, bensì anche nella sua poesia o, meglio, nella sua espressione di un linguaggio in versi. Il teatro è una religiosa pazienza che vive la persona, che è assorbita dalla maschera, che è impregnata di solitudine.
Ma il mondo orientale di Mishima gli eroici fatti diventano i personaggi nati dal senso eroico. Già è proprio così in “La voce degli spiriti eroici”: “Nel mare che circonda il Giappone circola ancora il sangue. Il sangue versato da schiere di giovani forma il nucleo delle maree. Non l’avete mai veduto? Noi lo distinguiamo chiaramente sulla superficie, nelle notti di luna. Il sangue versato invano tinge i neri flutti. Ondeggia una rossa corrente, vaga intorno a queste piccole isole ululando tristemente come una belva”.
Credo che in Mishima tutto sia vita.
In Pirandello è teatro. Capiamoci. Non mi riferisco al teatro considerato come rappresentazione teatrale tradizionale con un suo scenario e una sua ribalta e un suo pubblico. La teatralità, in Pirandello, è data dal linguaggio che cerca il personaggio e anche dalla funzione del personaggio, che ha bisogno della parola e delle forme per restare maschera fino in fondo.

La “confessione di una maschera”, ben identificata di Yukio Mishima, diventa in Pirandello ciò che Maria Zambrano ha chiamato “confessione come genere letterario”. La confessione di Pirandello è la traducibilità dell’assurdo di Ionesco, ma anche di Empedocle, suo conterraneo, che ha dettato la tragicità del linguaggio nella visione moderna del rapporto tra vita e morte.
Un sistema di idee che viene assunto dalla letteratura tradizionalista che va da Drieu La Rochelle a Robert Brasillach sino a toccare la singolarità di Giuseppe Berto. Il teatro, per non smentire Diego Fabbri, ha sempre una profondità religiosa perché in esso il teatro della vita è il teatro del limite, ovvero della morte anche se, per sottolineare la Zambrano, “L’istante immediato lascia intravedere l’aldilà”.
In fondo i “Sei personaggi in cerca d’autore” sono l’interferenza del vuoto nella rappresentatività del reale e dell’assurdo della maschera – persona. Perché la maschera è persona.
Tutto questo trova in Mishima il senso di morte che nasce dalla decadenza della storia e della supremazia del futile. Infatti in Mishima si legge: ” Il mondo di certo finirà in rovina, però prima che ciò avvenga per alcuni attimi si materializzeranno splendide movenze che in un altrettanto breve intervallo scompariranno” (da “La casa di Kyōko”).
La cultura orientale è cultura dell’impassibile legame tra la verità, che non corrisponde alla realtà, e la menzogna, che non corrisponde alla bugia.
E in Occidente?
Antonio Machado, in alcuni versi, è come se “descrivesse” il destino di Mattia Pascal o di Enrico IV o di Pirandello stesso quando recita: “Si mente più del previsto per mancanza di fantasia: anche la verità si inventa”.
Certo, per Pirandello la fantasia è una verità, ma quella verità pirandelliana non solo resta un “gioco delle parti”, piuttosto si fa impossibile menzogna perché è il sogno che intrappola il senso tragico della vita che si respira nella complicata solitudine dei personaggi.
In Mishima la solitudine è deserto d’anima che bisogna colmare con il vento e il naufragio, il naufrago e il coraggio del naufrago perché “Solo gli uomini sono davvero capaci di rinunciare a tutto ciò che posseggono” (da “L’amore dell’abate di Shiga”).
In Pirandello c’è sempre un essere “nati a metà”. Ovvero, i personaggi tra l’essere maschera e l’essere persona sembrano vivere una favola, un senso tragico nella favola. Si pensi il sonaglio del berretto o “Liolà” o alcuni versi di “Mal giocondo”.
Pirandello accoglie i personaggi che si agitano come fantasmi nel suo essere viandante nelle confessioni. Bene ha sottolineato ancora Maria Zambrano nel sostenere: “Aver dato accoglienza ai personaggi della favola dell’eterna favola nella tragedia dell’essere uomini, nient’altro che uomini, cioè essere nati a metà”. Si è sempre dentro il viaggio di Uno, nessuno e centomila perché si resta dei viandanti senza dimora. Si può vivere come “giganti della montagna” e non capire che si è tutti dei personaggi mancanti di una presenza o personaggi della mancanza?
In “Si gira” e poi con il titolo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” (1915 e poi 1925) si legge: “…l’uomo… può sfuggire all’eterno tormento dell’insaziabilità solo a patto che sappia estraniarsi dalla vita, guardandola dal di fuori”. Forse il Pirandello che abbiamo cercato nelle nostre sere di inquietudine era custodito nella verità dell’insaziabile.
Costantemente contemporaneo?
Certamente contemporaneo perché supera la storia e il suo “teatro” si infrange ai piedi della montagna sacra che è il tragico ineluttabile.

Yukio Mishima

Mishima ci ha insegnato: “La vita è una danza nel cratere di un vulcano: erutterà, ma non sappiamo quando”. Pirandello non ha forse vissuto su questo palcoscenico?
Tale palco – scenico non è una verità o la verità, non è neppure una finzione o la finzione. È semplicemente la maschera. Non una maschera che costruiamo giorno dopo giorno, ma la maschera che ci è stata consegnata nel momento in cui siamo nati.
Il destino? Chiamiamola “danza” come dice Mishima con il sublime dell’alchimia.
Non tutti riescono a mantenere la danza con un passo tra il silenzio e la solitudine, perché se le maschere ci inseguono è difficile, in questa contemporaneità smarrita tra le allodole della memoria e l’ambiguità del moderno, poter vivere con dei volti: “… incontrerai tante maschere e pochi volti…” (Luigi Pirandello).
Ci è dato vivere un linguaggio che è furtivo, rubato alle radici, lacerato nel presente, definito nel dolore, eppure anche recitando a soggetto restiamo inevitabilmente dentro la nostra verità. Ed è così che la maschera si confessa e cerca di uscire dallo specchio per mostrarsi con il suo volto anche se “non si sa come” (da “Non si sa come”, dramma rappresentato nel 1934 e poi nel 1935).
In Mishima questo sancisce il fatto che “Le cose perdonabili sono, in verità, pochissime”, perché
“Come tutti sanno, il sapore della gloria è amaro” (da “Il sapore della gloria).
Perche ho voluto tratteggiare il centenario di Mishima con l’intrecciarlo a Pirandello? Perché si vive di maschere. Ogni maschera ha i suoi segreti e la sua confessione che nascono dalle ombre della vita. Ovvero Mishima ebbe a scrivere in “Colori proibiti”: “Quando pensiamo all’altrui felicità, affidiamo agli altri, e sogniamo a nostra insaputa, una nuova forma di realizzazione dei nostri desideri e ciò può renderci più egoisti di quando pensiamo alla nostra felicità personale”.

In “Mishima o la visione del vuoto” Marguerite Yourcenar scrisse: “Ci sono due specie di esseri umani: quelli che allontanano la morte dai loro pensieri per vivere meglio e più liberamente, e quelli che, al contrario, si sentono più vivi e saggi in quanto la spiano in ogni segnale che essa invia loro attraverso le sensazioni del loro corpo o le fatalità del mondo esterno. Queste due diverse mentalità non si amalgamano. Ciò che gli uni chiamano morbosa mania è per gli altri eroica disciplina”. A questa eroica disciplina appartiene Mishima.

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Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Per il Ministero della Cultura è attualmente:

• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;

• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;

• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.

Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.

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