Samuele Conficoni
20 Gennaio 2025 – Nel settembre 1974 Bob Dylan entra negli A&R Studios di New York con in mano una dozzina di canzoni scritte nei mesi precedenti. È reduce da un’annata particolarmente piena: aveva pubblicato, a inizio anno, Planet Waves, inciso con The Band, e, tra gennaio e febbraio, aveva attraversato gli Stati Uniti e il Canada affiancato proprio da The Band per una tournée che era stata accolta in modo sensazionale sia dal pubblico sia dalla critica. Durante le incisioni agli A&R Studios, dove ad accompagnare Bob Dylan ci sono soltanto un bassista e un batterista, il cantautore suona in tutte le canzoni una chitarra acustica accordata in Open D e in Open E.
Le sessioni newyorchesi si prolungano per quattro giorni: tra il 16 e il 19 settembre vengono incisi una dozzina di nuovi pezzi e una cover. Un accenno di organo in un paio di brani sarà l’unico elemento che verrà aggiunto successivamente. Il disco è pronto per essere pubblicato e nel giro di un paio di mesi vengono stampate alcune test pressings. Qui la storia si fa leggenda e la leggenda storia: Bob non è del tutto soddisfatto di come suona il disco e lo fa sentire al fratello a Minneapolis mentre è lì per le vacanze natalizie. Quest’ultimo lo ritiene troppo monocorde per via dei pochi strumenti presenti e per il fatto che tutte le canzoni sono eseguite da Bob con un’accordatura aperta di chitarra. A quel punto il cantautore decide di incidere nuovamente alcuni dei brani presso lo Studio 80 di Minneapolis con un gruppo di musicisti locali radunati per l’occasione.
L’LP che esce il 20/01/1975, cinquant’anni fa proprio oggi, contiene cinque brani tratti dalle sessioni di New York e cinque tratti da quelle di Minneapolis. In queste canzoni, nelle quali il cantautore sembra parlare con una onestà e con una crudezza disarmanti della burrascosa relazione con la moglie che stava per sbriciolarsi e terminare in maniera abbastanza traumatica proprio in quei mesi, scorre davvero la voce più sofferente e schietta che una qualsiasi persona possa mai mettere in musica. Si tratta di una delle più alte espressioni poetiche di Bob Dylan, alla pari dei suoi capolavori pubblicati nei ’60s e di quelli dell’anzianità pubblicati tra 1988 e 2020. Non è vero che non c’erano state e che non ci sarebbero state fasi altrettanto strepitose e geniali nella sua carriera: senza dubbio, però, questa, che lo vede dannarsi con un moto perpetuo e nervoso tra 1974 e 1976, periodo che comprende anche la scrittura e la pubblicazione del successivo LP Desire e l’avventura esplosiva della Rolling Thunder Revue, tour di sua invenzione nel quale confluirono svariati artisti che si svolse in due tranche nel 1975 e nel 1976, è uno dei momenti più avvincenti e brillanti del suo infinito e ramificato percorso artistico.
Nel 2018 è uscito il quattordicesimo capitolo della Bootleg Series di Bob Dylan: intitolato molto giustamente More Blood, More Tracks, è dedicato proprio alle sessioni d’incisione di Blood on the Tracks. Se delle canzoni incise a Minneapolis abbiamo unicamente i take scelti per il disco e non possediamo, purtroppo, alcuna versione alternativa o preparatoria, le sessioni newyorchesi di settembre ci sono giunte integrali. Alcune di queste tracce erano già state pubblicate in box set precedenti, per esempio nei primi tre volumi della Bootleg Series, usciti in un cofanetto unico nel 1991, o nell’ancora precedente box Biograph. Per chi scrive è proprio nelle versioni newyorchesi – cinque delle quali, come si diceva, confluirono nel disco originale –, così spoglie, rade e a tratti strazianti, nelle quali è possibile rintracciare con filologica dovizia interessanti variazioni nei testi e nelle interpretazioni vocali di Dylan, che risiede la vera essenza, quella più sanguigna e vitale, di Blood on the Tracks, un passaggio iniziatico tra una fase e un’altra della vita, un album che, affermò Dylan probabilmente con l’intento di disorientare critici e studiosi, fu semplicemente ispirato da alcuni racconti di Čechov. (Samuele Conficoni http://Musicmap.it )
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