Un viaggio alle Eolie è un viaggio nel tempo, anzi nei tempi. Nei diversi tempi che si aggrovigliano in noi, ognuno di essi con le proprie particolarità, ognuno con la propria singolarità: tempi psichici dei singoli, tempi collettivi delle comunità storiche ed economiche, tempi della natura; queste sette isolette tirreniche con trentacinque vulcani, di cui sei ancora attivi, plasmano la vita umana facendone emergere aspetti insospettati e insospettabili. Nelle sue condizioni, a un tempo estreme e normali, l’arcipelago ben rappresenta un caso-limite in cui l’agire umano si manifesta con tutta la sua tenacia e, soprattutto, la sua profonda, inconfessata, rimossa debolezza.
Tutto nacque da una scommessa. Una scommessa contro la pandemia, il confinamento, lo spettro della malattia. A Gennaio, quasi senza riflettere e armato dalla volontà di superare il negativo, prenotai un soggiorno trekking in questi luoghi. Non avevo mai fatto trekking organizzati e in gruppo, preferisco la solitudine, ma tanta era la voglia di uscire dalla cappa di piombo del Covid che non andai per il sottile e scommisi che per Maggio l’incubo doveva finire (avrei poi scoperto che più o meno tutti i simpatici partecipanti avevano tentato lo stesso mio azzardo). Non so se l’incubo sia finito, ma almeno sospeso lo è, così mi trovai sull’aliscafo che da Milazzo mi portava a Lipari.
Siamo così abituati alle novità che non ci rendiamo conto nemmeno più dei cambiamenti; già l’aliscafo, col suo tranquillo e velocissimo procedere senza rullii e beccheggi, è qualcosa di particolare e solo il successivo quotidiano uso di una motonave o la vista di qualche peschereccio mi diedero l’idea del cambiamento. Ma questo era solo un piccolo antipasto. Le “Isole d’Italia”, l’organizzatrice del trekking, aveva lavorato bene e con precisione: ci attendeva un denso programma in cui tutto l’arcipelago sarebbe stato visitato con una guida, Flavia, che si rivelò semplicemente ideale! Quest’ottima organizzazione contribuì al successo dei trekking, ma, in misura ancora maggiore, fu il continuo intrecciarsi di differenti esperienze e piani temporali che lo resero unico. Ho sempre pensato al tempo come a qualcosa di non omogeneo; non semplicemente una retta che parte dal passato e si proietta verso il futuro e nemmeno un cerchio che imita l’andamento delle stagioni ma, invece, una compresenza, un affastellarsi di soggettivo e oggettivo, di psicologico, storico, sociale e cosmologico, in cui questi differenti piani s’intersecano continuamente. Le Eolie mi hanno confermato questa impressione aggiungendo un’ulteriore momento: il geologico.
La presenza umana nell’arcipelago risale alla notte dei tempi, a circa seimila anni fa, con numerose interruzioni, riprese e poi nuove interruzioni: subito si manifesta l’importanza dell’ambiente. Da un lato alcune isole, in piena preistoria, erano un luogo privilegiato per l’estrazione e la lavorazione dell’ossidiana, dall’altro coloro che creano l’ossidiana, i vulcani, hanno tempi del tutto indipendenti dall’attività umana. L’ossidiana è un vetro vulcanico che, affilato, rende possibile la realizzazione di strumenti taglientissimi. Nel neolitico era molto richiesta e queste isole divennero un centro di produzione e commercializzazione fondamentale del bacino del Mediterraneo. Ma l’aver assistito, a distanza di sicurezza, all’eruzione in corso a Stromboli o l’aver attraversato le fumarole di Vulcano hanno conferito una concretezza molto pregnante a quelli che vengono catalogati semplicemente come “prodotti dell’eruzione vulcanica”. Non solo e non tanto per la spettacolarità degli eventi; certo, vedere colonne di fuoco che s’innalzano dalla bocca del vulcano, distinguere tra queste colonne la lava scagliata verso l’alto, provare uno strano bruciore alle vie respiratorie sono esperienze notevoli, perturbanti. Ma al di là dello spettacolo che la natura offre, al di là del brivido che percorre la schiena al rombo delle esplosioni o alla vista di panorami mozzafiato ciò che più turba è intuire le immani forze in gioco, i tempi misurabili in migliaia e migliaia di anni che rendono possibile ciò che si vede e, di contro, l’impossibilità di prevedere con largo anticipo ciò che la natura tiene in serbo per noi.
Le vite di intere comunità si svolgono tranquille per secoli e poi, abituati alle eruzioni, non danno più nemmeno peso a quella che può rivelarsi la più fatale. Qui non è come sul Vesuvio. L’attività eruttiva non sembra essere così distruttiva come a Pompei, ma ne siamo poi proprio sicuri? La storia umana delle Eolie è fatta proprio di fughe e ritorni degli uomini (l’ultima di queste fughe è poi solo del 3 agosto 1888 a Vulcano, soltanto centotrentatre anni fa) e l’attuale eruzione dello Stromboli o le fumarole di Vulcano, così affascinanti per curiosi turisti moderni talvolta saccenti talvolta timorosi, può nascondere la semplice distruzione: da quanto tempo le camere magmatiche dei vulcani sono andate riempiendosi per poi scagliare nel cielo e sulla terra il materiale accumulato? Quante migliaia di anni hanno impiegato i movimenti tettonici per creare così tanto calore da provocare l’eruzione? O il gas ad accumularsi prima di scatenare un’esplosione? In fin dei conti queste isole sono cambiate più volte anche in epoca storica e Lipari sarebbe irriconoscibile per un antico romano dopo le eruzioni del IV, VIII e XIII secolo che ne hanno completamente ridisegnato l’orografia.
E tutto questo tempo trascorso, per noi uomini, ha rappresentato un intervallo lunghissimo; magari si è costruito senza ritegno, si sono sventrate montagne, ci si è adattati, secondo i nostri tempi, a una natura mai totalmente distruttiva. Poi, improvvisamente, i tempi coincidono e la geologia interviene, drammaticamente, sulla storia e sull’economia: il bellissimo museo archeologico di Lipari, la cui visita è di grande interesse, narra anche di questi “appuntamenti”. Appuntamenti che sono senz’altro distruttivi, talvolta in modo drammaticamente totale, ma che ci ricordano quanto la Terra sia viva: geologicamente e biologicamente. Il vulcano diventa espressione di una vita interiore del nostro pianeta, laddove il termine “vita” può essere inteso metaforicamente ma, d’altro canto, non sono i nostri atteggiamenti esteriori anche il frutto di lente, quasi geologiche, mutazioni della nostra interiorità? Le fumarole di Vulcano sono venefiche, ma comunicano quell’aspetto attivo, produttivo, vitale del profondo di un pianeta che crediamo di conoscere. Per questo è stato illuminante, costeggiando le isole, seguire con lo sguardo le tante linee che caratterizzano il paesaggio.
C’è la linea della costa, con i suoi faraglioni, le insenature, le grotte marine; essa ci narra della continua lotta dell’acqua con la pietra e la quantità di piccoli golfi disegnati dal loro scontro, testimonia il suo inesauribile riproporsi. Poi, le colate laviche disegnano linee e vallate che precipitano verso il mare, testimonianze di titaniche forze che modellano e rimodellano l’ambiente superficiale in base ai dettami delle profondità geologiche. Ma queste colate sono a loro volta percorse, al loro interno, da linee di materiale di diverso colore avvertendoci così che non solo il minerale non è uniforme ma che eruzioni successive e processi chimici susseguenti hanno a loro volta modellato l’ambiente donando ad esso un’affascinante policromia. Poi c’è la linea della vegetazione che marca la riconquista della vita sulla pietra e che all’occhio esperto rivela, in base alle specie coinvolte nella colonizzazione, da quanto tempo è in atto questa riconquista. Infine gli insediamenti umani che narrano di una storia, di un’economia, di una visione ecologica, con l’introduzione di flora e fauna esterne all’ambiente originario, e, talvolta, di un’arroganza, recente, recentissima. Ultimo e insieme primo, c’è il profilo delle isole; un profilo che nel caso di Stromboli evoca immediatamente il vulcano ma negli altri, per quanto con difficoltà, tradisce sempre la presenza di più vulcani.
Le linee delle isole che s’innalzano sul mare appaiono semplici, quasi sempre dominate da figure coniche ma avvicinandosi si scoprono particolari che complicano e confermano la prima impressione. Queste diverse linee sono al tempo stesso fisiche e temporali; segno di attività incessanti, concretizzano, ognuna, la propria “razionalità” donando, nella loro molteplicità, il fascino delle isole. Un fascino che si è manifestato un giorno con la figura di una donna che sotto il sole a picco delle dodici e con un cappello dalle larghe tese, trascinava una cassetta per la frutta dove aveva riempito i sacchi di cenere vulcanica; quella cenere avrebbe fertilizzato il suo giardino, potenza fecondatrice di attività distruttive. Un fascino che si materializza nei singolari movimenti delle isole che si inabissano da un lato e s’innalzano dall’altro.
Così si vedono case costruite solo un centinaio di anni fa già molto più in basso rispetto alle attuali o si ammira una paleospiaggia, a Filicudi, che dopo centomila anni s’innalza oggi a circa trenta, quaranta metri dal livello del mare; forse il mito delle Simplegadi, le isole mobili che tentarono di schiacciare la nave degli Argonauti, è un lontano ricordo di questi fenomeni. Un fascino che appare nei neck vulcanici, ovvero quel magma solidificato all’interno di un camino vulcanico e reso visibile dopo che il vulcano, ormai inattivo, è stato del tutto privato dall’erosione del suo cono; è come vedere una lastra del vulcano che descrive la via interna percorsa dal magma: ultimi testimoni, alti decine di metri che torreggiano in mezzo al mare evocando, silenziosamente, una lontanissima storia dimenticata.
Significativo, infine, è il caso delle cave di pomice a Lipari. E’ impressionante vedere un’intera montagna sbancata e scavata; è un inno, nel bene e nel male, alla potenza dell’uomo e al progresso della modernità. Un progresso che talvolta occulta i suoi limiti e la sua arroganza mentre il borbottante vicino Stromboli ricorda quali sono le forze in gioco. Un progresso che, quasi chiudendo un cerchio, aveva riportato l’arcipelago al ruolo suo preistorico: lo sfruttamento del materiale vulcanico, ma non più ossidiana bensì pomice. Recentemente sulle pagine del “Corriere della Sera” autorevoli personalità (Antonio Stella, Antonio Calabrò, Andrea Cancellato, Giovanni Puglisi, Franco Iseppi) hanno sostenuto l’idea di realizzare un museo della pietra pomice a Lipari. Non si può non essere d’accordo e uniamo la nostra voce flebile al potente appello lanciato.
Nessun luogo è più adatto di questo a mostrare il groviglio di tempi intersecantesi e quasi inghiottiti in un unico punto: geologia, biologia, tecnica, scienza, storia, economia sono concentrati in modo mirabile in un solo luogo. Sarebbe un’ottima occasione per le isole e per la cultura tutta. Al di là dell’orrore di una montagna completamente sbancata nel giro di poche decine d’anni, grazie alla tecnica e alla ricerca del profitto come unico faro dell’attività umana, il museo potrebbe ricondurre a unione tutte quelle linee temporali e fisiche accennate. Sì, perché alle Eolie ciò che più colpisce è proprio la solare visibilità della pluralità di esperienze e provenienze che costituisce il nostro essere uomini; l’estrema profondità, nei tempi e negli spazi, che ci plasma contribuendo a donarci dignità: “le linee della vita sono diverse”.