ll mio nome è Ayrton e faccio il pilota/ e corro veloce per la mia strada/ anche se non è più la stessa strada/ anche se non è più la stessa cosa. Venticinque anni fa, primo maggio 1994, in una curva del circuito di Imola moriva Ayrton Senna: pilota, tre volte campione del mondo, uomo e mito allo stesso tempo. L’Iron Man della Formula 1.
Avevo 13 anni, era domenica, stavamo a pranzo di amici con i miei quando la Williams Renault di Senna uscì di pista ad altissima velocità alla curva del Tamburello. Di colpo la giovinezza di chi oggi ha più o meno quarant’anni si dissolse, così come il mondo fatto di sogni che il pilota brasiliano aveva contribuito a creare. Eroe senza tempo, con lo sguardo sempre un po’ melanconico, quasi come a presagire il destino funesto. Il giorno prima era volato in cielo Roland Ratzenberger, durante le qualifiche dello stesso maledetto Gran Premio di San Marino, Ayrton era inquieto e non avrebbe voluto correre l’indomani, per rispetto del giovane collega. Il week end più nero della storia della Formula 1.
Erano gli anni dei filmini con la videocamera con la data stampinata in basso, delle stragi di mafia (nel 1992 lo shock per il duplice assassino ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), di Hulk Hogan contro The Undertaker, della prima PlayStation e del walkman con le cuffiette. La morte di Senna ci ridusse l’adolescenza. Ricordo che il primo poster che attaccai nella nuova cameretta romana, quando da Messina presi un treno carico di sogni e speranze nel 1999, fu quello di un Ayrton pensieroso.
Ayrton Senna da Silva era nato a San Paolo il 21 marzo del 1960, tre volte campione del mondo di Formula 1 nel 1988, 1990 e 1991, a cavallo tra la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, soprannominato “magic” ha ottenuto il record assoluto di pole position dal 1989 al 2006 (65), superato poi da Michael Schumacher, altro eroe dal destino triste.
La grandezza di Senna è legata soprattutto alla statura del personaggio e a quello che ha rappresentato, fra incertezze, contrasti vitali e la ricerca continua di una verità interiore che lo ha reso immortale.
All’epoca Nigel Mansell cercava per istinto la velocità assoluta, Nelson Piquet una rivincita personale rispetto a ciò che la famiglia avrebbe voluto per lui, Alain Prost aveva la “fame” di chi era partito dal nulla. Ayrton Senna gareggiava e volteggiava sicuro tra le curve e i rettilinei quasi come se fosse perennemente sospeso in un mondo tutto suo. Un talento inarrivabile, un’isola nascosta e impenetrabile come il suo sguardo sempre perso in un vuoto pieno di magia.
Un mito, dal greco mythos: racconto, favola, leggenda, per il Brasile tutto che in lui vedeva il simbolo della speranza, per tutti, uscito di scena in mondovisione.
Come si può accettare la morte del migliore? Non si può. Ricordo gli occhi di mio padre in quel primo maggio, non li avevo mai visti così tristi e persi.
La fatalità non ci conforta. Chiudo come ho iniziato, con le parole che Lucio Dalla ha voluto dedicare ad Ayrton nel 2006: “E ho deciso una notte di maggio/ in una terra di sognatori/ ho deciso che toccava forse a me/ e ho capito che Dio mi aveva dato il potere di far tornare indietro il mondo/ rimbalzando nella curva insieme a me/ mi ha detto "chiudi gli occhi e riposa"/ e io ho chiuso gli occhi”.