Come ormai da qualche anno, nel #GiornodellaMemoria, ricordo con piacere una delle più importanti esperienze di viaggio vissute. Era l’agosto del 2010 di un’estate molto fresca, a Berlino. Una città con un passato “pesante” da gestire e un futuro, all’epoca, già tangibile attraverso la nuova identità firmata dai vari Renzo Piano, Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Norman Foster, Jean Nouvel e Daniel Libeskind. Quest’ultimo architetto ha curato il progetto del Jüdisches Museum Berlin, il più grande museo ebraico d’Europa, dove si trova l’installazione “Shalechet”, diecimila volti di acciaio sospesi nel tempo.
L’architetto polacco, attraverso la comunicatività emozionale del messaggio architettonico prova a rendere viva e tangibile la storia del popolo ebraico e della Shoah. La sua architettura sembra sciogliersi nella scultura e le geometrie appaiono come lacerate, continui tagli nei rivestimenti di zinco, squarci di luce e pavimenti disequilibrati confondono e inquietano la visita. Il corridoio sotterraneo, dal quale si accede, introduce in un vero e proprio labirinto sensoriale, fatto di vuoti e luci, diviso in tre assi distributivi che rappresentano la metafora della storia del popolo ebraico: l’emblema della “prigionia” che conduce alla “Torre dell’Olocausto”, uno spazio freddo e chiuso simile ad una stanza carceraria; il secondo è simbolo della fuga verso l’esilio e porta al “Giardino ETA Hoffmann” formato da 49 steli inclinati di cemento su cui sono piantati alberi, il pavimento è sconnesso e disorienta il visitatore; il terzo asse rappresenta l’antica storia del popolo ebraico. .L’edificio è completamente rivestito con lastre di zinco, tagliate da finestre allungate che sembrano ferite nella “pelle” metallica. All’interno sono presenti alcuni ambienti vuoti definiti simbolicamente e architettonicamente “Voids”.
Lo Spazio vuoto della memoria ospita l’installazione “Shalechet” dell’artista israeliano Menashe Kadihman: il visitatore cammina su circa diecimila volti di acciaio collocati sul pavimento, e ne ascolta il frastuono. Quest’angolo di museo è stato volutamente lasciato privo di impianto di riscaldamento per aumentare il senso di freddo orrore che attanaglia chiunque vi entri. La Torre, tra l’altro, si trova a poca distanza da un altro edificio che ospita un asilo infantile, da cui provengono, smorzate le voci dei bambini che giocano. Si cammina quindi su un mare di piastre grezze che guardate con attenzione e da vicino rivelano fessure con nasi, occhi, visi e bocche, migliaia di bocche aperte e congelate in un inconfondibile urlo silenzioso. Un frastuono che esplode ad ogni passo e che le pareti rimandano in continuazione in un eco deforme e stridulo, un grido delle migliaia di vittime dei tanti genocidi passati, presenti e futuri. Un luogo dove l’anima si perde nella memoria e il corpo nel tempo di uno spazio unico e pieno di sofferenza, per ricordare sempre gli orrori dell’umanità e non ripeterli.