Roma, 30 aprile 2021 – La violenza sulle donne non è un fatto nuovo; si fantastica spesso che sia una novità degli ultimi decenni ma è esistita in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura. È così presente da essere sublimata in opere letterarie, una su tutte l’Otello di Shakespeare in cui il protagonista, accecato dalla gelosia, uccide la sua amata Desdemona per poi scoprire di non essere mai stato tradito.
Eppure ogni volta sembra di assistere ad un fatto nuovo, inedito e sempre peggiore degli altri con un’asticella di paura che sala sempre di più.
Lascia infatti esterrefatti l’aggressione sventata appena in tempo ai danni di una giovane donna il cui ex fidanzato aveva ingaggiato un sicario nel deep web per renderla invalida e sfregiarla in volto. La ragazza è ora sotto protezione in quanto, sebbene l’ex fidanzato abbia fermato il sicario, la polizia non ha la certezza che il messaggio sia stato recapitato con successo.
Ne parliamo con Simonetta Montinaro, Psicologa, Psicoterapeuta del Centro Metafore di Aleteia.
Dott.ssa Montinaro, cosa è la violenza?
È un comportamento finalizzato al danneggiamento intenzionale dell’altro ed ha una dimensione comunicativa e progettuale. In alcuni casi, in certe situazioni, il livello di pensiero e di controllo rispetto alla violenza viene limitato e prevale l’azione.
Ci dobbiamo rassegnare a convivere con episodi di violenza all’interno di una coppia?
Assolutamente no, anzi episodi come questi, forse ci parlano della necessità di superare la dimensione strumentale di tali comportamenti violenti, sollecitati dall’allarme sociale che questi eventi provocano, e lavorare in ottica preventiva sulla dimensione espressiva di questi agiti. Occorre contrastare lo sviluppo che nelle persone, spesso uomini, ma non sempre, si strutturi un funzionamento che ricorra alla violenza per gestire il proprio dolore e la perdita.
“Al primo schiaffo lascialo”. Ma lo schiaffo è un atto concreto, inequivocabile, esplicito.
È vero, la violenza fisica è chiara, non lascia ombre di dubbio sull’intenzionalità, ma all’interno delle relazioni si possono manifestare forme di violenza come quella psicologica, economica, più difficili da individuare. Le persone che ne sono vittime fanno fatica a riconoscere che si tratta comunque di violenza, tendono a minimizzare i comportamenti dell’altro. Non negano tanto i fatti ovvero che certe azioni siano state compiute nei loro confronti, ma non ne riconoscono il danno e attribuiscono un significato che va a scemare la responsabilità di chi ha agito, attribuendo spesso a se stesse la colpa delle reazioni del partner.
Quando la violenza viene immaginata nella mente del partner che strumenti si hanno?
Nella coppia, la violenza non è un conflitto dove i due partner dialogano e discutono alla pari, ma attiene ad un’asimmetria nell’esercizio del potere tra due persone legate da una relazione significativa. Rispetto agli strumenti la risposta è complessa perché, come abbiamo accennato, riconoscere le diverse forme di violenza ed individuare tempestivamente la dimensione comunicativa di quel comportamento violento nel contesto relazionale, dipende dalla storia personale di ciascun partner, dalla capacità di attribuire significati rispetto agli eventi della vita, dalla capacità di differenziare quello che è accaduto nel passato da quello che accade nel presente, dalla gestione delle emozioni di rabbia e del dolore, dalla tolleranza alle frustrazioni che hanno a che fare con la possibile perdita e con la fine di una relazione.
Come si scardina lo schema della persona intesa come una proprietà?
La mancanza di rispetto, la svalorizzazione, la svalutazione fino alla disumanizzazione le esercita chi probabilmente nella propria infanzia o nel corso dello sviluppo ha conosciuto queste modalità di relazionarsi, potrebbe averle subite direttamente o aver assistito a forme di violenza di questo tipo rivolte a persona a lui/lei care. Il problema è la costruzione di senso che avviene durante la crescita rispetto al ricorso – invece che al rifiuto – di questi comportamenti per gestire il timore della perdita del partner. La persona matura affronta il dolore per la possibile perdita trasformandola in sofferenza e sostenendo il cambiamento in un percorso di crescita.
Quindi abbiamo bisogno di un cospicuo, inesorabile lavoro da parte di tutti gli interlocutori che per primi rilevano questi profondi disagi psicologici. Occorrono interventi di sensibilizzazione e di prevenzione rivolti agli stakeholder che entrano in contatto con queste persone (servizi territoriali, specialistici, forze dell’ordine, associazioni) e alla comunità chiamata ad assumere posizioni ben chiare e definite rispetto alle diverse modalità di espressione della violenza.
La violenza di genere è rappresentata come la violenza di un uomo contro una donna. Ma è vero anche il contrario?
Sì, è meno frequente ma è presente e attiene a quella difficoltà di mentalizzazione che fa ricorrere alla violenza come modalità di fronteggiare la perdita, il dolore e la separazione. Inoltre, oggi si parla anche di violenza filioparentale, quella commessa dai figli nei confronti dei genitori.
Oggi la violenza sulle donne è unanimemente riconosciuta e condannata; se ne parla molto di più, le donne denunciano più frequentemente, il fronte della presa di distanza verso la violenza è compatto. Eppure, nonostante questa pressione sociale, alcuni continuano a considerare di poter fare del male al partner per gelosia o perché non si accetta la fine di una relazione. Cosa possiamo fare di più?
Punterei molto sulla sensibilizzazione rispetto al riconoscimento della violenza nei contesti scolastici, lavorativi (grandi aziende, cooperative), ma anche sull’attivazione di percorsi di formazione rivolti gli stessi servizi territoriali, servizi specialistici, le forze dell’ordine che hanno bisogno di occasioni approfondire la conoscenza su questi temi perché hanno a che fare con questi comportamenti continuamente.
E per la persona che ha commesso la violenza?
Per loro lo Stato dovrebbe investire molto di più in percorsi di presa in carico. Solo la persona che è stata denunciata effettua percorsi obbligatori in contesti coatti, ma non sempre affiancati da interventi terapeutici e riparativi. Esistono associazioni che accolgono persone che hanno commesso violenza, ma sono ancora poche. Occorre incentivare centri di supporto specifici per questo tipo di problemi dove è possibile innescare un processo di pensiero nella persona tale da renderla in grado di attribuire significati diversi agli eventi, alla propria storia e alla sofferenza prima impensabili. Ma soprattutto occorre promuovere una cultura che valorizzi la persona che chiede aiuto ai primi segnali di rischio di agiti. Quindi una comunità, uno Stato che, da una parte, condanna tutte le forme di violenza anche quelle meno eclatanti come la violenza psicologica – spesso minimizzata e giustificata – ma che dall’altra è in grado di promuovere una cultura che contrasti la vergogna e valorizzi la persona che è capace di ricercare aiuto non appena possa essere consapevole di stare male e di ricorrere a comportamenti violenti per gestire il dolore che prova – costituirebbe un valore aggiunto ed innovativo. Occorre pertanto ulteriore investimento in campagne pubblicitarie che stimolino chi commette violenza a chiedere aiuto.
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