AGRIGENTO, 7 maggio 2021 – Tutto pronto per la grande celebrazione di Beatificazione di Rosario Angelo Livatino, il giudice agrigentino ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 mentre si recava in Tribunale. Domenica 9 maggio nella Basilica Cattedrale di Agrigento alla presenza dei Vescovi siciliani avverrà il Rito di Beatificazione.
“Amati figli e figlie delle Chiese di Sicilia, il Signore ha benedetto ancora questa nostra terra! L’ha benedetta in uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità”.
E’ quanto scrivono i Vescovi di Sicilia alla vigilia dell’evento ricordando la giovinezza, la forza della fede e gli ideali del Vangelo presenti in questo giovane magistrato, morto per avere creduto nella giustizia e nel suo impegno per il bene comune e la verità.
“L’ha benedetta nella sua professione di magistrato, esercitata coraggiosamente come missione laicale al servizio del Regno e della Storia – continuano i Vescovi nel loro accorato messaggio –, tanto dentro le aule pubbliche dei tribunali quanto nei meandri più nascosti del cuore umano, che egli ha saputo attraversare con discrezione e fermezza per garantire la difesa della legalità e tentare finanche la redenzione di chi ha avuto l’ardire di infrangerla”.
E ne ricordano anche la testimonianza del martirio avvenuto in una calda mattinata di settembre di 30 anni fa.
“Oggi il Signore ha benedetto ancora questa nostra terra nella sua beatificazione, con la quale offre a noi e a tutti un modello nuovo e dirompente di santità: un modello insolito, che aggiunge ai canoni tradizionali del concetto di santità i connotati dei «santi della porta accanto», con la loro attualità e la loro concretezza, ma soprattutto con l’originalità della loro specifica missione, vissuta coerentemente per diventare più umani in se stessi e più fecondi per il mondo”.
Rosario Livatino, viene consegnato oggi alla storia come il primo magistrato laico martire in odium fidei, da cui si può imparare che “la santità ci appartiene in forza del battesimo e che siamo chiamati a declinarla in qualsiasi modalità, con qualsiasi mezzo a nostra disposizione, per arrivare dovunque ci sia un residuo di umanità che attende di essere raggiunto e riscattato”.
I Vescovi siciliani ricordano che Livatino, verrà annoverato, insieme ad un altro figlio di questa nostra isola, il Beato Pino Puglisi, nella lunga schiera di profeti e martiri del nostro tempo e della nostra terra. Da loro “impariamo che la santità ha il sapore della speranza che non si arrende, della coerenza che non si piega e dell’impegno che non si tira indietro, perché ogni angolo buio del mondo – compreso il nostro – abbia l’opportunità di rialzarsi e guardare lontano”.
Già tre anni fa, nel venticinquesimo anniversario dello storico appello lanciato da San Giovanni Paolo II alla Valle dei Tempi di Agrigento, i Vescovi avevano accostato il Parroco Puglisi e il Giudice Livatino, indicandoli come “testimoni esemplari della conversione dalle parole ai fatti che deve avvenire in seno alla Chiesa”.
Oggi, c’è l’urgenza di questa conversione, quale eredità congiunta che essi ci consegnano.
“È l’eredità di chi ha trovato il coraggio della libertà, squarciando il silenzio della connivenza e decidendo di parlare chiaramente, non solo con parole tecniche mutuate dai linguaggi umani, ma soprattutto con la parola del Vangelo”.
Il Parroco e il Giudice, hanno parlato senza mezzi termini delle mafie e alle mafie contribuendo a quello che viene definito il “processo di riformulazione del discorso ecclesiale sulle organizzazioni di stampo mafioso”, processo che fa riferimento al “grido del cuore” di Giovanni Paolo II, ben rimarcato dai vescovi di Sicilia in una lettera del 2018.
E’ importante quindi parlare anche ai cuori, “limitarsi a parlare di mafia senza tentare di raggiungere i mafiosi – scrivono nel loro messaggio i prelati siciliani – rischia di ridursi alla condanna e alla presa di distanza, che sono necessarie ma non bastano; d’altro canto, spingersi a parlare con i mafiosi senza una riflessione seria e comunitaria sulla mafia rischia di esporre al suo fascino ammaliante e al suo potere manipolatore. Per questo nella lettera del 2018 abbiamo segnalato che, oltre a «prendere le distanze dal “silenzio”» occorre dare al discorso ecclesiale sulle mafie il suo «timbro peculiare», per evitare di renderlo «più descrittivo che profetico».
“Ecco l’eredità di Livatino, di Puglisi e di innumerevoli altri fratelli e sorelle, che non saranno mai elevati agli onori degli altari, ma che hanno scritto pagine indelebili di storia ecclesiale e civile, anche ai nostri giorni e anche nella nostra Sicilia!”, e i Vescovi onestamente riconoscono anche “che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità”.
E lanciano un appello: “di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanee ma con azioni sistematiche. Solo così il sangue dei Martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza”.