PALERMO, 19 luglio 2021 – Sono passati ben 29 anni da quel terribile 19 luglio. Era una calda domenica del 1992, ricordo perfettamente la giornata, anche perché certe giornate rimangono scolpite nel cuore, nella mente, nell’anima in maniera indelebile. I miei genitori di buon mattino mi avevano espresso il desiderio di andare a passare una domenica di relax in campagna, nella nostra casetta di campagna dove trascorrevo fino a qualche tempo fa momenti di serenità spesso anche in solitudine, per ritemprarmi, per riflettere.
“Ok – dissi – oggi in campagna”. Giornata meravigliosa, con i miei genitori, mia moglie e soprattutto il mio cucciolo che avrebbe compiuto un anno tra un mese.
Verso le cinque del pomeriggio decido di tornare a casa, rinfrescarmi e prepararmi per la messa. A casa accendo il condizionatore – che caldo quel giorno! – e accendo anche la tv. Vado nell’altra stanza ma le notizie che escono dalla televisione mi confondono, non comprendo bene, “adesso la linea a Palermo”, “siamo qui, sul luogo della strage”… Strage? Ma che ca…volo è successo? Mi fermo davanti a quelle terribili immagini, fuoco, fumo nero, distruzione dovunque, le prime concitate notizie… Hanno ucciso il Giudice Paolo Borsellino e gli uomini e la coraggiosa donna della scorta. Sono impietrito. Arriva mia moglie e mi trova singhiozzante, si, non ho vergogna non si può avere vergogna a piangere davanti a quello scempio. Un forte dolore al petto, al cuore, più di quando fu, qualche settimana prima per il Giudice Giovanni Falcone. Questa volta si sommavano i due dolori. Che momenti. Che tristezza. Nessuna forza, solo lacrime a cui si erano accompagnate quelle di mia moglie. Squilla il telefono, dall’altro capo mia mamma che nel frattempo aveva appreso la notizia: “hai sentito?”.
Ricordare quei momenti è doloroso, se pensi che qualche giorno prima avevi visto il Giudice alle manifestazioni per il suo grande amico Falcone, avevi visto e sentito le ultime sue interviste, le sue parole gravi e cariche di “morte”. Terribile. Non avevo più voglia di vestirmi e andare a messa, non avevo le forze. Ma proprio per la speranza e nella fede in colui che solo può darci la Vita e la Resurrezione, andai con grande tristezza a messa; eravamo tutti lì, presi da un dolore indicibile ma tutti uniti nella comune preghiera per Paolo, il giudice che avevamo cominciato a voler bene in quelle ultime tragiche settimane, per Paolo e per quei giovani coraggiosi uomini e donna della scorta, nomi rimasti impressi nei nostri cuori.
L’uomo
Paolo Emanuele Borsellino era nato a Palermo il 19 gennaio del 1940, aveva appena 52 anni quando cadde vittima di Cosa Nostra nella strage di Via D’Amelio insieme ad Agostino Catalano, Emanuela Lio, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina. Vissero insieme con Giovanni Falcone, erano nati nello stesso quartiere e giocavano insieme da piccoli. Che fatalità, insieme dalla nascita alla morte passando dalla stessa esperienza di lotta alla mafia.
Il magistrato
Fu chiamato dal Giudice Rocco Chinnici nel cosiddetto “pool antimafia”, un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso e, “lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso e, di conseguenza, la possibilità di combatterlo più efficacemente”.
Chinnici chiamò Borsellino a fare parte del pool insieme con Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Ma il 29 luglio del 1983 – altro giorno che non dimenticherò più – Chinnici rimase ucciso nell’esplosione di un’autobomba insieme a due agenti di scorta e al portiere del suo condominio. Altra strage, altro dolore.
“Per ragioni di sicurezza, nell’estate del 1985 Falcone e Borsellino furono trasferiti insieme con le loro famiglie nella foresteria del carcere dell’Asinara per scrivere l’ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 475 indagati in base alle indagini del pool – riporta la storia –. Per tale periodo, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana richiese poi ai due magistrati un rimborso spese e un indennizzo per il soggiorno trascorso. Intanto il maxi processo di Palermo che scaturì dagli sforzi del pool cominciò in primo grado il 10 febbraio del 1986, presso un’aula bunker appositamente costruita all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo per accogliere i numerosi imputati e numerosi avvocati, concludendosi il 16 dicembre del 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli”.
Le ultime interviste
Vale la pena rileggere il discorso che il 25 giugno, pochi giorni prima di essere assassinato, Borsellino tenne nell’atrio della Biblioteca di “Casa Professa” nel corso di un dibattito organizzato dalla rivista “Micromega”, un discorso interrotto più volte da lunghi appalusi e carico di grande forza:
«Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene. Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”».
Ecco, a distanza di 29 anni è ancora tempo di tifare per loro, per Giovanni, per Francesca, per Paolo, per tutti i magistrati caduti e per tutti quei meravigliosi ragazzi che hanno perso la vita “Per amore!”. Grazie a loro!