Un grande riconoscimento per il giornalismo d’inchiesta, l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2021 a due giornalisti, la filippina Maria Ressa e il russo Dmitry Muratov, “per il loro impegno nella salvaguardia della libertà di espressione, che è una precondizione per la democrazia e una pace duratura” e “per la loro coraggiosa lotta per la libertà di espressione in Filippine e in Russia”, spiega il Comitato Norvegese per il Nobel. Un riconoscimento “a tutti i giornalisti che si battono per il loro ideale in un mondo in cui la democrazia e la libertà della stampa affrontano sempre più condizioni avverse”.
Un Nobel per la pace che quest’anno ha scelto di puntare i riflettori sul difficile lavoro di denuncia svolto da tanti professionisti nel mondo e sul legame inscindibile tra libertà di espressione, democrazia e pace, sottolineando che un giornalismo libero e indipendente “protegge contro gli abusi di potere, le bugie e la propaganda” e che “senza libertà di espressione e libertà della stampa, sarà difficile promuovere con successo la fraternità tra le nazioni”.
Ma chi sono Maria Ressa e Dmitry Muratov?
Maria Ressa, nata a Manila e trasferitasi negli Stati Uniti all’età di 10 anni, ha lavorato per le più importanti televisioni filippine, per la CNN di Manila e Jakarta occupandosi, tra l’altro, del terrorismo nel sud-est asiatico. Ha insegnato “Politics and media” alla Princeton University ed è ‘senior fellow’ al Centro Internazionale per la violenza politica e la ricerca sul terrorismo a Singapore. È CEO ed executive editor di Rappler, un sito web di notizie fondato nel 2012 insieme ad altri colleghi amici, e basato sul giornalismo investigativo, sull’indipendenza e sul crowdfunding. Ad oggi, conta quasi 5 milioni di followers sulla piattaforma di facebook.
Dopo l’elezione del presidente Rodrigo Duterte nel 2016, Ressa con Rappler è tra i primi a denunciare l’uso sui social media di trolls (un modo efficace per diffondere commenti provocatori che innescano reazioni e discussioni) e bots (applicazioni software programmate per eseguire attività in modo automatico) durante le elezioni, allo scopo di diffondere false notizie.
Successivamente, la denuncia si sposta sulle politiche di Duterte puntando il dito contro la campagna antidroga governativa. Una campagna condotta, secondo un report Onu del 2020, come “una guerra contro la popolazione dello stesso paese” poiché ha causato, dal 2016 al 2019, più di 8mila vittime (oltre 12mila secondo Human Right Watch), tra cui centinaia tra attivisti per i diritti umani, sindacalisti e giornalisti.
Nel 2020, il documentario di denuncia, We hold the line, del regista tedesco Marc Wiese, racconta il lavoro di Ressa e dei suoi collaboratori, mostrando il vero volto della “drug war” del governo filippino, e contribuisce a portare i fatti all’attenzione del grande pubblico, vincendo il F:act Award al CPH:DOX 2020, il Copenhagen International Documentary Film Festival.
Infine, lo scorso settembre, la Corte Penale Internazionale ha dichiarato l’apertura a breve di un’inchiesta per possibili crimini contro l’umanità compiuti dal governo filippino.
I rapporti di Duterte con la stampa locale e con la redazione di Rappler si sono complicati negli anni, fino alla dichiarazione pubblica nel 2017, da parte del presidente stesso, in cui definisce il sito web di notizie un “fake news outlet” e uno strumento della CIA americana. A ciò hanno fatto poi seguito un’investigazione sulla struttura della società, la revoca della licenza e le accuse, in capo a Ressa, di evasione fiscale e di cyber-diffamazione, tra molestie e messaggi di odio sui social media scatenati da trolls.
Da più parti si è levata una voce a sostegno di Ressa, della redazione di Rappler, contro i continui attentati alla libertà di stampa nelle Filippine, che ha portato, il 3 maggio scorso, in occasione della Giornata Mondiale della Libertà di stampa, alla nascita della coalizione internazionale “Hold the line” formata da più di 80 gruppi guidati dal Committee to Protect Journalists (CPJ), dall’International Centre for Journalists (ICFJ) e da Reporters Sans Frontières (RSF). Ne è nata la pagina web holdthelineformariaressa.com, in cui personaggi influenti, giornalisti, attivisti, avvocati, artisti, politici, trasmettono messaggi video in difesa della libertà di stampa.
Nel 2018, Maria Ressa è tra i reporter “guardiani” della libertà di stampa nominati da Time come Person of the Year, riceve il premio Golden Pen of Freedom e il Knight International Journalism Award.
Il secondo giornalista premiato è Dmitry Muratov, direttore e fondatore nel 1993 della Novaja Gazeta, definito dal Comitato di Oslo “il più indipendente giornale in Russia oggi”, critico nei confronti del governo Putin, ha denunciato negli anni episodi di corruzione, violenza della polizia, frodi elettorali, arresti illegali, violazioni dei diritti umani in Russia e in Cecenia, la produzione massiva di trolls sui social e altri aspetti della società russa, secondo il Comitato del Nobel, “raramente menzionati da altri media”.
Muratov comincia la sua carriera giornalistica nel 1987 collaborando con il giornale moscovita Komsomolskaya Pravda, organo ufficiale del Komsomol, l’organizzazione giovanile dei giovani comunisti, considerato una voce importante nel clima riformistico della perestrojka. Nel 1991, il giornale si schiera apertamente contro il colpo di stato militare del gruppo conservativo del governo comunista e, in seguito ad una disputa sulla linea editoriale del giornale dopo il crollo dell’Unione Sovetica, nel ’93 Muratov lascia la redazione e fonda con altri colleghi una testata basata sul giornalismo d’inchiesta che, nel 1995, diventerà la Novaja Gazeta. Nel 2000, grazie al supporto finanziario di Gorbachev e del banchiere russo Lebedev, il giornale riesce a superare un periodo di crisi finanziaria scongiurando la chiusura.
Il lavoro di denuncia svolto negli anni su argomenti scottanti è stato pagato a caro prezzo dalla redazione del giornale, subendo molestie, minacce e violenze fino all’uccisione di sei giornalisti della Novaja Gazeta, ai quali Muratov ha dedicato il suo premio.
Non sono mancate le forti prese di posizione pubbliche contro il potere. Nel 2012, ad esempio, in una lettera aperta sul suo giornale, Muratov denunciò le minacce di morte che il vice direttore Sokolov aveva ricevuto, a causa di una sua inchiesta, da Alexander Bastrykin, capo del Comitato Investigativo di Russia, la principale autorità d’investigazione federale russa. In quella lettera Muratov chiese pubblicamente a Bastrykin di garantire l’incolumità della sua redazione. La lettera provocò un vero e proprio putiferio che si concluse con le scuse del capo del Comitato.
Nonostante tutto, si legge nella motivazione per l’assegnazione del Nobel, Muratov ha continuato a svolgere il suo mestiere, rifiutandosi di tradire la sua indipendenza e difendendo il diritto dei giornalisti di scrivere riguardo ogni cosa, nel rispetto degli standard etici della professione.
Numerosi i riconoscimenti al suo lavoro, tra cui, nel 2007 il Premio Internazionale per la libertà di stampa e, nel 2016, il Golden Pen of Freedom.
Lo stato della libertà di stampa nel mondo, in Russia e nelle Filippine.
Secondo il rapporto 2021 di RSF sulla libertà di stampa nel mondo, nell’ultimo anno il giornalismo è risultato “totalmente bloccato” o “seriamente ostacolato” in 73 paesi su 180, e “costretto/controllato” in 59, anche in relazione a fatti legati alla gestione della pandemia nei singoli paesi che ha reso più difficile l’accesso alle informazioni. Solo 12 paesi vantano un clima totalmente favorevole al mondo giornalistico.
La libertà di informazione, inoltre, non risulta essere legata solo alla guerra: la maggior parte dei 50 giornalisti uccisi nel mondo nel 2020, si trovavano in paesi non in conflitto. Dall’inizio dell’anno ad oggi, poi, sono già 25 i giornalisti uccisi per ragioni accertate e direttamente legate al loro lavoro, e 351 quelli detenuti.
Russia e Filippine, in particolare, i paesi dove operano Ressa e Muratov, registrano una caduta rispettivamente al 150esimo e al 138esimo posto nella classifica generale.
In particolare, nel 2020 la crisi pandemica nelle Filippine ha accentuato l’atteggiamento autoritario del governo nei confronti dei giornalisti attraverso minacce e arresti e l’inasprimento di una legislazione che consente di perseguire reporter e organizzazioni che pubblicano cose non gradite al governo. Nel 2020, sono stati quattro i giornalisti uccisi e, in piena pandemia, il governo non ha rinnovato la concessione al più grande network televisivo del paese, ABS-CBN, privando milioni di cittadini di un servizio di pubblico di informazione su scala nazionale. Si registrano anche persecuzioni dei media attraverso ‘eserciti di trolls’, cyber attacchi ai siti web di notizie indipendenti e al sito dell’Unione Nazionale dei Giornalisti delle Filippine.
In Russia, secondo RSF, la situazione della libertà di stampa è peggiorata nell’ultimo periodo, in particolare a partire dalle proteste anti-Cremlino nella città di Khavarovsk del 2020, e dall’arresto di Navalny in Russia nel gennaio di quest’anno. I giornalisti impegnati nella copertura dei fatti, anche attraverso manifestazioni di supporto, sono stati ostacolati, arrestati, multati. Un inasprimento che ha riguardato anche la legislazione: la legge del 2017 che obbliga le organizzazioni non profit che ricevono donazioni straniere a registrarsi come ‘agenti stranieri’, è stata via via emendata fino ad estendersi a giornali e piattaforme di notizie. Un’etichetta, quella di agente straniero, che Tikhon Dzyadko, editore di Dozhd, la principale televisione indipendente da poco aggiunta alla lista, ha dichiarato equivalere ad “essere definiti dei nemici”. Almeno 5 i siti di notizie, indipendenti o critici sul governo, già chiusi dall’inizio del 2021, e molte le piattaforme occidentali multate nei primi sei mesi dell’anno. Risale, infine, allo scorso agosto, l’espulsione della corrispondente di lungo corso della BBC, Sarah Rainsford per motivi legati alla “protezione della sicurezza della Russia”.
Nella storia del Nobel per la pace, soltanto una volta, nel 1937, il prestigioso premio era già stato assegnato ad un giornalista. Era il tedesco Carl von Ossietzsky, pacifista, membro della German Peace Society, che aveva indagato sul riarmo tedesco segreto in violazione del Trattato di Versailles, e per questo accusato di tradimento di segreti militari e condannato a 18 mesi di prigione. Quando gli fu attribuito il Nobel, non potè ritirarlo perché rinchiuso, dapprima nel campo di concentramento polacco di Sonnenburg e dopo in quello tedesco di Esterwegen, uno dei cosiddetti Moorlager (campi nelle paludi) riservati per lo più ai prigionieri politici, detenuti cioè per le loro idee.
A più di 80 anni di distanza, l’assegnazione del premio Nobel per la pace a due giornalisti ha sicuramente l’indubbio merito di riportare l’attenzione sull’importante ruolo del giornalismo nella società, di stimolare una seria riflessione collettiva, civile e istituzionale, richiedendo senz’altro una forte e chiara presa di posizione sui principi della libertà di stampa, della libertà di opinione e di espressione in generale, fondamentali per misurare il grado di democrazia in un paese, e per proteggere da abusi e conflitti.
(Nella foto di copertina, tratta dal sito ufficiale del Premio Nobel, l’illustrazione dell’artista Niklas Elmehed che dal 2012 realizza con un ritratto tutte le prime immagini ufficiali delle persone premiate con il Nobel)