È trascorso ormai un anno da quando l’oppositore russo Alexey Navalny venne arrestato al rientro in Russia dalla Germania, dove ricevette le cure a causa di un avvelenamento da agente nervino, avvenuto nell’estate 2020, il cui sospetto ricade sull’Intelligence del Cremlino.
Da allora sta scontando in un carcere di massima sicurezza una condanna a due anni e cinque mesi per un verdetto che la stessa UE ha definito come politicamente motivato. Una vera e propria campagna di repressione è stata messa in atto, negli ultimi 12 mesi, dalle autorità russe contro il leader dell’opposizione. Con lui anche i suoi sostenitori sono vittime di abusi di potere, ai quali sono stati distrutti i diritti alla libertà di espressione e di associazione. I collaboratori di Navalny si vedono costretti anche a difendersi da accuse montate ad hoc e altri scontano già in prigione delle pene infondate.
Il leader tuttavia non si piega al Cremlino e continua a perorare la sua causa anche dal carcere, da dove, sui suoi social network, scrive in un post: “Non sono riuscito a fare un solo passo nel mio paese da uomo libero. Sono stato arrestato persino prima del controllo alla frontiera. Dopo aver scontato il mio primo anno di prigione, voglio dire a tutti esattamente quello che ho gridato a coloro che si erano radunati fuori dal tribunale quando una scorta mi ha portato a un furgone della polizia: non abbiate paura di niente. Questo è il nostro paese e non ne abbiamo un altro”.
L’appoggio nei confronti dell’oppositore arriva anche in questi giorni da Bruxelles dove l’Unione Europea chiede alla Russia il rilascio immediato di Alexey Navalny, rispettando la misura provvisoria concessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per quanto riguarda la natura e la portata del rischio per la vita di Navalny.
Il rischio tuttavia, secondo Amnesty International, è che il dissidente russo debba scontare altri quindici anni qualora venisse ritenuto colpevole di altre “false accuse”.