Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria in Ucraina, alle porte dell’Europa, è il segno manifesto, ancora una volta, della sua difficoltà a farsi ascoltare quando divampano gli incendi dei popoli e gli Stati entrano in guerra, per uscirne vincitori o vinti e distruggere vecchi ordini e crearne nuovi.
La voce del diritto mentre infuria la guerra, è debole, sommessa, inascoltata, riemerge possente quando gli uomini terminate le ostilità, le stragi, i bagni di sangue, si trovano a dover progettare ordini diversi da quelli del passato e si accorgono che ci sono conti da regolare, finzioni diplomatiche, ipocrisie politiche da soddisfare, verità storiche da proporre come assolute.
I vincitori riscoprono allora il diritto, che non è quello penale o civile che si studia nelle aule universitarie, ma quello costituzionale e quello internazionale, quello che è alla base della ripartenza dei popoli belligeranti e quello che cerca di ridisegnare nuove forme di convivenza, dopo aver cercato l’impegno di tutti a superare odi e diffidenze.
Dopo il processo di Norimberga, lo sforzo più grande fu quello di creare un diritto internazionale e una Corte di giustizia per giudicare e condannare i crimini di guerra, come appunto quello dell’Aia, che non fosse un semplice tribunale dei vincitori, come fu invece quello di Norimberga, su cui gravano ancora oggi gli interrogativi di sempre, che sono l’anteriorità della norma violata, l’assoluta imparzialità, soprattutto politica ed economica del terzo giudicante, chi vuole intendere intenda, l’esecuzione troppo spesso coercitiva della sentenza emessa dalla Corte stessa.
Chi accusa, non può mai essere oltre che accusatore anche giudice e quindi emanare sentenze o imporre sanzioni, sarebbe in ogni caso la morte del diritto stesso, per questo è necessario la figura di un “terzo” giudicante che sia al di sopra delle parti in contesa e, ne possa accertare la colpevolezza o l’innocenza.
La guerra segna il tramonto e la fine di vecchi ordini, di ceti dirigenti, di classi sociali, di altri promuove la nascita e lo sviluppo, tenendo presenti, però, che nulla ritorna come prima e che quello che nasce o si annuncia, è spesso fuori da ogni disegno di governi e statisti, per una naturale eterogenesi dei fini, come il filosofo tedesco Wundt definisce il principio in base al quale i fini che la storia persegue, non sono quelli che gli individui o le comunità si propongono, bensì quelli risultanti dal rapporto o dal contrasto esistente tra le volontà dei più e le condizioni oggettive del’operare, in sintesi, dal farsi e determinarsi delle cose.
Ricostruire dalle macerie è difficile e nulla sarà come prima; enormi saranno le difficoltà con cui i governi dovranno misurarsi, con la speranza che alla guida degli Stati non più belligeranti ci siano uomini veri, che sono poi quelli che costruiscono non solo per se stessi ma soprattutto per gli altri e, pronti ad ascoltare la voce del diritto.
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