Roma, 29 maggio 2022 – La notizia è su tutti i giornali: nel corso delle recenti assunzioni di personale amministrativo presso le motorizzazioni civili, specialmente nelle sedi del Nord Italia, sono stati in molti a rinunciare alla prospettiva del posto fisso nella PA. Il motivo sembra essere collegato alla non disponibilità ad accettare sedi che non fossero al Sud. Considerando che la quasi totalità di aspiranti dipendenti pubblici proviene dal meridione, questo rifiuto di massa può diventare un problema. Serio.
Il 26 maggio il Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, nel corso dell’audizione sulle “problematiche della motorizzazione civile e sui dati contenuti nelle relazioni annuali degli Enti locali sull’utilizzo dei proventi delle sanzioni derivanti da violazioni del codice della strada” alla Commissione Trasporti della Camera, ha riferito la difficoltà di reperire personale amministrativo e messo in guardia sul futuro “Strutturalmente -ha dichiarato- nei prossimi anni avremo difficoltà di trovare persone per le motorizzazioni”.
Lo scenario
Dall’intervento del Ministro Giovannini emerge che le motorizzazioni hanno perso il 50 per cento di personale negli ultimi 20 anni (a causa del blocco del turn over le amministrazioni si sono infatti svuotate, rendendo difficile anche l’affiancamento formativo ai neoassunti).
”Per ciò che riguarda il personale, devo dirvi che purtroppo, anche le assunzioni recenti sono andate in parte deserte, in particolare al Nord – ha dichiarato-. Su 320 funzionari di amministrazione messi al concorso, una quota consistente ha rinunciato evitando di prendere servizio a meno che non fosse indicata una sede al Sud. Temiamo che la stessa cosa accada per il primo concorso per ingegneri“.
Che la PA abbia bisogno di personale è un dato acclarato (leggi gli approfondimenti di Paeseitaliapress). Che alcuni concorsi si siano rivelati dei flop è stranoto. Ma c’è una differenza. Se nell’ormai iconico Concorso Sud del 2021, a fronte di migliaia di candidature, alle prove selettive si è presentata – in alcuni casi- meno della metà degli aspiranti e di questi in pochi riuscivano a passare lo scritto lasciando quindi vuoti gli stessi posti messi a concorso e costringendo a rocambolesche riedizioni di procedure selettive, nel caso delle motorizzazioni siamo di fronte a persone che vincono un concorso e che preferiscono rinunciarvi piuttosto che lasciare la propria terra d’origine, il Sud Italia, da sempre serbatoio privilegiato – per mancanza di alternative- della PA.
Le motivazioni delle rinunce
Intervistato da Il Messaggero, Pasquale Tridico, Presidente dell’INPS, prova a dare una spiegazione. “Non è soltanto una questione monetaria – dichiara-. È complessiva. Riguarda il luogo di lavoro, le condizioni offerte nel luogo di lavoro. Servono relazioni industriali moderne: significa mettere nei contratti integrativi ciò che oggi già offrono le aziende private più moderne. Parlo di condizioni di lavoro flessibili che consentano di conciliare i tempi di lavoro con quelli della vita privata, forme di welfare familiare, uno smart working moderno“.
A ben vedere la prospettiva di un contratto che per definizione è di lunga durata (a differenza del mercato privato la possibilità di licenziamento, sebbene prevista, è poco probabile), costringe soprattutto i più giovani a porsi una domanda: ne vale veramente la pena? Per rispondere, chi ha rifiutato il tanto declamato posto fisso avrà valutato alcuni aspetti. Proviamo a vederne alcuni.
Partiamo dagli stipendi. Va anzitutto sfatato il mito che i contratti privati siano più ricchi di quelli pubblici. Il mercato privato, in Italia, è caratterizzato dal lavoro creato da PMI spesso a conduzione familiare. E non sono tutte isole felici. Lo stipendio iniziale di un livello C1 nella PA si aggira intorno ai 1200-1300 euro a cui vanno poi aggiunte alcune voci non prevedibili al momento della firma del contratto come le indennità collegate al tipo di mansione e alla produttività individuale e di struttura. Lo stipendio può superare i 1500 euro netti mensili.
Il costo della vita. Molti aspiranti dipendenti pubblici provengono da aree in cui la vita, rispetto alle grandi aree metropolitane, ha un costo contenuto. Nelle grandi città molti neo assunti non residenti si ritrovano a potersi permettere solo una camera in affitto. In pratica ritornano a fare la vita dello studente fuori sede, forse meno goliardica. Il costo di una camera può arrivare anche a 600 euro al mese. A differenza del settore privato, nel pubblico impiego non esistono benefit collegati alle spese sostenute per l’alloggio, cosa invece assai diffusa nelle grandi multinazionali o nelle istituzioni internazionali. Ma queste sono spesso “fortini inespugnabili”, in cui entrare è un fatto raro e la competizione è su scala globale.
Prospettive di crescita. Nel pubblico impiego si passa da un livello ad un altro solo attraverso il concorso pubblico. Potrebbe non portare ad alcun risultato l’impegno e la devozione per la realizzazione del bene pubblico perché non esistono meccanismi di “promozione sul campo” e questo certo scoraggia chi invece punta ad un ambiente in cui sia garantita la crescita professionale. Non va infatti sottovalutato che, negli ultimi mesi, la quasi totalità dei posti per diplomati è stata coperta da personale laureato e spesso con master di secondo livello. Molti provengono da settori altamente competitivi e spesso vantano anni di esperienza, specialmente i vincitori dei concorsi post pandemia. In un ambiente in cui il merito viene riconosciuto con pochi strumenti, questo potrebbe far desistere molti dal firmare il contratto.
Il welfare aggiuntivo. Le aziende che aspirano all’eccellenza hanno capito che per attrarre i talenti (così sono definiti gli aspiranti lavoratori caratterizzati da elevata specializzazione, creatività e capacità trasversali, in grado di dare un contributo in termini di crescita e di innovazione) occorre anche garantire un sistema di benefici. Dal banalissimo Amazon Locker nel parcheggio aziendale, all’assicurazione privata estesa anche ai familiari, alle colonnine di ricarica per le auto elettriche a convezioni di ogni tipologia e sorta a buoni spesa, a visite culturali privilegiate. I contratti di lavoro nella pubblica amministrazione, e in particolare quelli integrativi, non sono tutti uguali. Non è un mistero che anche un laureato alla Bocconi provi a sostenere l’esame per commesso alla Banca d’Italia.
Coccole e benessere per il dipendente. No, nella PA non esiste nulla di simile. Non ci sarà mai il concerto a sorpresa di Robin Williams come quello organizzato da Luxottica nel 2018 per i suoi dipendenti. E non ci sarà mai nemmeno il week end alle Terme di Saturnia per fare team bulding. Ma chi si approccia al pubblico impiego questo lo sa e probabilmente nemmeno lo desidera.
Il southworking. Nella comunità professionale di Linkedin il dibattito è esploso nel corso del lockdown. Abbiamo tutti molto vivide le immagini della corsa all’ultimo treno in partenza per il Sud dalla stazione centrale di Milano. Fior fiori di professionisti non hanno esitato un istante a lasciare la propria sede. Talvolta senza neppure avvertire i colleghi. E quale è stato il risultato? Il lavoro è proseguito senza eccessivi intoppi, le produttività in alcuni casi sono anche aumentate, una riunione on line ha sostituito brillantemente quella in presenza. Lavorare al Sud è possibile. Se molte aziende private hanno accolto con favore tale modalità in questa fase di normalizzazione, perché la PA è così rigida nel proporlo? Forse perché si teme di perdere il controllo sui propri dipendenti?
Il posto fisso nella PA è attrattivo. Non va perso di vista che i numeri dei partecipanti alle selezioni pubbliche rimane alto, sebbene si possa osservare una certa flessione negli ultimi mesi. Se infatti a fronte di soli 250 posti da istruttore amministrativo per Roma Capitale si sono iscritti ben 81.000 candidati -le prove concorsuali sono proseguite per circa 5 settimane-, per i 2000 messi a concorso dall’INPS si sono iscritti “solamente” in 67.000.
Il desiderio di potersi quanto meno dare la possibilità di scegliere è elevato e forse, a ben vedere, dietro le rinunce di tanti c’è solo questo perché le priorità, nel post pandemia, sono davvero altre.
Resta solo un interrogativo: si rinuncia per fare cosa?
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