Milano – Come sta cambiando, o meglio, come è destinato a cambiare il mondo del recruiting? Quali impatti hanno avuto e avranno nei prossimi anni i social network nel processo di ricerca e selezione del personale? E l’automazione del lavoro deve davvero spaventare i lavoratori? Per prepararsi a quello che accadrà nel mondo del recruiting italiano nei prossimi mesi, può essere senz’altro utile lanciare un’occhiata oltreoceano, a quel mercato statunitense che da sempre anticipa le più importanti mutazioni del mercato del lavoro mondiale.
Ebbene, stando ai risultati dell’ultimo Recruiter Nation Survey di Jobvite, l’ansia di chi è alla ricerca di un nuovo lavoro nei confronti dell’automazione è per lo più esagerata. Proprio così: se infatti ben il 69% di chi è alla ricerca di un’occupazione lavorativa si dichiara preoccupato per il l’avanzata della digitalizzazione, solo il 9% dei recruiter è convinto che questo rappresenti un reale problema.
«L’automazione può ovviamente spaventare i disoccupati alla ricerca di un nuovo lavoro, i quali temono di non trovare più spazio in settori sempre più dominati dalle macchine» spiega Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.
«Ma lo scenario reale è diverso e molto meno minaccioso, poiché solamente una minima percentuale delle realtà industriali ha concretamente pianificato di automatizzare i propri processi nei prossimi anni». Nello specifico, negli Usa, solamente il 10% delle compagnie sembra voler avviare l’automazione in tempi brevi: questo dato è molto significativo, soprattutto se pensiamo che questa fetta era pari al 25% nel 2015.
Questo, dunque, per quanto riguarda l’automazione, ovvero il principale cambiamento nel mondo del lavoro.
Ma quali sono, invece, fattori che influenzano maggiormente la decisione di un recruiter? Ebbene, quando un selezionatore decide se assumere o meno una persona, l’aspetto più importante, secondo il 67% dei professionisti statunitensi, è costituito dall’esperienza lavorativa precedente. Se questo primo dato può sembrare scontato, così non è per il secondo: il 60% dei recruiter assegna infatti un’enorme importanza al modo di pensare di un candidato, per essere certo che possa uniformarsi un pieno alla cultura aziendale del suo nuovo posto di lavoro.
«La tendenza generale è quella di assegnare sempre più importanza a tutti quegli aspetti che davvero possono assicurare delle ottime performance da parte di un candidato» ha commentato Carola Adami, aggiungendo che «il voto di laurea e il prestigio dell’università finiscono per perdere d’importanza di fronte alla reale esperienza professionale di un candidato e alla sua capacità di condividere in pieno la mission aziendale». A dimostrazione di tutto questo, solo il 19% dei recruiter statunitensi ha assegnato grande importanza al punteggio di laurea, così come solo il 21% ha indicato il prestigio del college come fattore differenziante.
È cambiato il modo di guardare ai candidati, e in parte sono cambiate anche le modalità di ricerca. Parliamo infatti dell’imperiosa ascesa del social recruiting: da una parte chi ricerca un lavoro lo fa sempre di più utilizzando dei social network (nel 59% dei casi negli USA) mentre i recruiter considerano ormai i social network come degli strumenti indispensabili. E se l’87% dei selezionatori dichiara che la piattaforma più utile per i propri scopi è LinkedIn, è da notare che il 43% valuta sistematicamente i candidati anche sulla base del rispettivo profilo di Facebook, il 22% considera anche Twitter e l’11% spende del tempo alla ricerca di eventuali blog personali.
«Mai come oggi un cacciatore di teste ha avuto la possibilità di conoscere tutti gli aspetti della vita di un candidato» ha spiegato Carola Adami, e per questo «chi è alla ricerca di un nuovo lavoro, oppure chi vuole fare carriera, deve stare molto attento alla gestione dei propri profili social, senza mai dimenticare che tutto ciò che è visibile al pubblico è potenzialmente un allegato del proprio curriculum vitae».
Stando ai dati del report, il 47% dei recruiter è colpito negativamente dalla pubblicazione sui canali social di fotografie legate al consumo di bevande alcoliche, mentre il 60% dei selezionatori tende a girare a largo dai candidati che tendono all’oversharing di contenuti. Ma il principale errore da evitare, per il 72% dei selezionatori intervistati, è proprio quello grammaticale: troppi errori di battitura e refusi sulla propria pagina Facebook, quindi, potrebbero compromettere una carriera lavorativa.
«Il mondo del social recruiting, dunque, rappresenta un’occasione da non perdere per chi si occupa di Risorse Umane» ha sottolineato Adami, «mentre per chi è alla ricerca di un nuovo lavoro può essere sia una benedizione che una maledizione: tutto sta, infatti, nel gestire in modo razionale ed intelligente le informazioni personali che si vogliono condividere con il pubblico».