Roma – Cooperazione internazionale allo sviluppo e imprese è un binomio in divenire, segnato anche da diffidenze culturali e limiti normativi. La sua evoluzione prosegue però, a partire da alcune consapevolezze. Come quella che il mondo profit ha cambiato paradigma, passando dalla responsabilità sociale al concetto di “scopo” rispetto al mondo, più ampio e complesso, mentre a crescere sono anche le sensibilità e il senso di coinvolgimento, come testimoniato dall’impegno nel sostenere l’Ucraina colpita dalla guerra in questi giorni.
Osservazioni e prospettive che sono emerse dall’incontro ‘Partnership insostenibili? Business, sviluppo e cooperazione’, organizzato ieri dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale in forma ibrida, online e in presenza, nella sede della Società geografica italiana di Villa Celimontana, tra il Colosseo e piazza San Giovanni.
L’iniziativa è da intendersi, secondo gli organizzatori, come una tappa di avvicinamento alla Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo (Coopera), prevista nella capitale a giugno. L’evento è stato indetto anche guardando a Codeway, appuntamento fieristico del settore della cooperazione allo sviluppo previsto per maggio sempre nella Capitale.
Ad aprire i lavori il moderatore Emilio Ciarlo, dirigente delle relazioni esterne e della comunicazione di Aics. Rilanciando l’orizzonte di Coopera, l’esponente dell’agenzia ha anche ribadito l’importanza del ruolo delle imprese per il comparto della cooperazione, come stabilito dalla Legge 125 del 2014, contesto normativo quadro per il settore. L’ottica è sempre quella, ha sottolineato Ciarlo, di “sostenere la promozione della democrazia, compito assegnatoci come missione e caratteristica qualificante della politica estera del nostro Paese”.
Francesco Rullani, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese all’Università Cà Foscari di Venezia, ha invece approfondito il tema dell’apporto delle imprese alla cooperazione anche a partire da un report che ha curato come coordinatore scientifico. Il docente ha delineato l’evoluzione del settore profit in questo contesto, sottolineando il passaggio “dalla responsabilità sociale di impresa al concetto di ‘purpose’, ovvero scopo, inteso con una tensione a comprendere veramente che cosa le aziende cambiano nel mondo quando operano”.
Un cambio di paradigma, secondo Rullani, che segna un “allontamento dalla responsabilità intesa come piano utile alla reputazione da valorizzare solo in termini di comunicazione, e quindi dai rischi che si approdi a pratiche di greenwashing o social washing”.
Progressi importanti che ancora però non riescono a innescare un cambio di passo definitivo nelle relazioni tra società civile e imprese. “La ragione è di tipo culturale- suggerisce Rullani- e deve essere affrontata moltiplicando i momenti di comprensione reciproca, che generano fiducia: quella che serve- aggiunge il docente- per investire sulla relazione fra questi due mondi”.
Relazione che ha trovato uno sbocco concreto nei bandi profit di Aics, come ha spiegato Grazia Sgarra, dirigente dell’uffico Soggetti di cooperazione, partenariati e finanza per lo sviluppo di Aics. “Il modello di business che promuoviamo è inclusivo, sostenibile e innovativo. Lo facciamo fin dal 2017, quando parlare di questi temi non era comune come ora”, riferisce Sgarra, che poi traduce in cifre il contributo delle imprese al sistema di cooperazione internazionale: “A oggi quello profit è l’unico bando che produce una leva finanziaria positiva. A fronte di un contributo pubblico di sei milioni di euro, le imprese ne hanno investiti 8,3”.
Il quadro generale è gravato però da due “fardelli” di tipo normativo, ha sostenuto la dirigente di Aics: “Il legame con il codice dei contratti, che, come stabilito anche dalla Corte dei conti, ha poco a che vedere con le finalità del nostro bando, e le regole europee sugli aiuti di Stato alle imprese, che ci hanno spinto ad attenerci sempre alla soglia del de minimis di 200mila euro”.
Sul tema torna anche Roberto Colaminè, vice direttore generale della Farnesina. “Questi ostacoli sono l’espressione di una filosofia politica ed economica rispetto al contributo statale alle imprese, e devono essere quindi rivisti non solo sul piano tecnico, ma anche politico ed economico e alla luce delle mutate condizioni economiche e delle necessità di sviluppo”, la riflessione del dirigente del ministero.
Tutte complessità, quelle relative ai “fardelli” normativi, frutto di un contesto statale generale che interagisce con la Legge 125, che rimane però “un’ottima norma” nonostante le difficoltà generali “sui piani burocratico e amministrativo”, come ha sottolineato Giampaolo Silvestri, segretario generale della Fondazione Asvi e coordinatore del Gruppo di lavoro 3 sul tema nell’ambito del Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (Cncs).
Al netto dei problemi da affrontare, il contributo delle imprese è fondamentale, come dimostrato da quello che sta succedendo nell’Ucraina colpita dall’offensiva militare russa di questi giorni, ha affermato Silvestri. “Osserviamo una messa a disposizione di mezzi incredibili non solo rispetto ai soldi ma anche alla volontà di fare qualcosa. Il motivo secondo me- ha detto il segretario di Asvi- non è solo da cercare nella grossa presenza delle nostre aziende nel Paese, ma anche in un aumento della sensibilità e del modo di pensare delle imprese, che si sentono coinvolte”.
Dell’impatto dei privati nelle realtà dei Paesi in via di sviluppo ha detto Elisabet Nyquist, che con la Fondazione Opes di cui è direttrice generale sostiene nel continente diverse aziende facendo “impact investing”. “Fra le aziende che sosteniamo c’è la kenyana Copia, che distribuisce prodotti di consumo a prezzi contenuti e che in nove anni, dal 2013, è passata da quattro dipendenti, 20 agenti e 300mila euro di fatturato a 30mila agenti e 40 milioni di introiti oggi”, la testimonianza della direttrice generale.