Al Monopoli gli “imprevisti” sono sempre in agguato, il “torna al via”, quasi sempre, è una perdita di tempo.
Immaginiamo Obama (gli Stati Uniti) come una pedina del popolare gioco da tavolo e la Siria la “famigerata” carta imprevisti “torna al via”.
All’inizio di agosto il presidente USA ha tirato il dado, ordinando raid aerei per bombardare le truppe dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS).
Allora i motivi dell’attacco erano tre: salvare i cittadini americani nella città petrolifera di Erbil, appoggiare/approvvigionare l’esercito regolare iracheno contro la follia jihadista (perché di “follia” si tratta) e “salvare” i “miscredenti” dagli artigli di Abu Bakr al-Baghdadi.
In questi giorni Obama torna dal via, quindi. La situazione nell’area siriano-irachena si aggrava e il premio Nobel per la pace 2009 è obbligato a intensificare l’escalation militare. Il Congresso – da sempre sua bestia nera – lo sta osservando e lo stesso Occidente, in evidente carenza di leadership, appare frastornato e incerto.
Nel frattempo si è aggiunta la questione Russia-Ucraina e Obama, che avrebbe voluto “normalizzare” gli Stati Uniti, non ha forze sufficienti per i due fronti. Anzi, tre, se al Medio Oriente e all’est europeo dovesse aggiungersi una più consistente presenza in Asia-Pacifico. Urgono alleati! Già mi chi è disposto, oggi, a seguire Obama? A parte una decina – tra i quali David Cameron e Matteo Renzi (il nostro premier sta dappertutto) – sinora gli “amici” hanno risposto all’help me a stelle e strisce in maniera freddina.
Gli appelli, nell’ambito del vertice Nato in South Wales, sono stati oggetto di garbata attenzione, ma non più di tanto. Nella dichiarazione finale la questione Califfato trova spazio solo in cinque articoli su 113, dove viene mescolata al problema delle residue armi chimiche in Siria e, alla fine, solo Bashar Al-Assad viene (discutibilmente) incolpato della nascita e dello sviluppo dell’ISIS. Per fiaccare e infine “distruggere” l’ISIS entro i prossimi tre anni – a lui ne rimangono due – cerca adesioni a una nuova “coalizione di volonterosi” per eliminare il finto Stato Islamico. Sono stati consultati persino i cinesi, che, senza impegnarsi, hanno espresso interesse. I sauditi, che di estremismo islamico se ne intendono, hanno sollecitato l’Occidente a “darsi una mossa”. Anche iraniani e siriani – già concretamente all’opera – che senza clamori stanno già facendo quella parte del lavoro sul campo che gli “alleati” preferirebbero non dover svolgere mai. Le adesioni stentano però a concretizzarsi perché il piano di Obama è, e resta, una scatola chiusa. Neanche il discorso al popolo statunitense di mercoledì, alla vigilia dell’11 settembre, è riuscito ad aprirla. Sul piano strettamente militare, quindi, assistenza al nuovo governo “inclusivo”, bombe di precisione e nada truppe sul terreno.
Da ciò si deduce che i pasdaran iraniani, le milizie sciite di Moqtada Al-Sadr, i regolari di Al-Assad e l’esercito iracheno sono ritenuti sufficienti. In quanto al nostro Paese, al momento si è esposto senza un reale piano operativo ma, il ministro degli Interni, ci ha spiegato (a noi popolo italiano) che siamo sotto tiro. Tradotto: rischiamo un attentato nel nostro giardino. Renzi ha già dichiarato che l’Italia aderirà alla coalizione internazionale. Per fare esattamente cosa?
Ancora non è dato di saperlo. A South Wales ci siamo proposti per guidare un gruppo di sei nazioni per favorire stabilità, ricostruzione, comando e controllo, nonché la funzione di enablers per alcune attività. Forse è proprio questo il ruolo che ci potremmo ritagliare.
E ora l’Occidente, anche se la chiama campagna antiterrorismo, è costretta a tornare in guerra.