COME PARLA UN UOMO POLITICO?

...Io temo le punte, ma temo ancora di più il dato serpeggiante di questo rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, questa deformazione della libertà che non fa più accettare né vincoli né solidarietà...

«Temo l’emergenza […]. Tutti dovremmo essere preoccupati di certe forme di impazienza e di rabbia […]. È crisi dell’ordine democratico, questa crisi latente, con alcune punte acute […].

Non guardate, amici, soltanto alle punte acute; guardate alle forme endemiche. […]

Io temo le punte, ma temo ancora di più il dato serpeggiante di questo rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, questa deformazione della libertà che non fa più accettare né vincoli né solidarietà. Questo io temo e penso che un po’ di aiuto di altri ci possa giovare nel cercare di riparare questa crisi della nostra società.

Ma immaginate mai, cari amici, cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, da chiunque fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese, dalla passionalità continua e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo?»

            Non sarebbe senza motivo se il lettore avesse pensato che queste parole si riferiscono al presente, all’eterna emergenza italiana, ma mi stupirei se avesse potuto immaginarne anche un loro declamatore. Il personale politico attuale in massima parte è segnato dalla mediocrità che poi condiziona l’intero panorama e il vuoto del pensiero, nella ricerca di “verve” oratoria, scade troppo spesso in luoghi comuni, frasi fatte, insulti; insomma, sciocchezzaio, se non volgarità. Chi avrebbe potuto parlare così?

            Se analizzassimo il nostro brano dal punto di vista letterario ci troveremmo elementi per giudicarlo asciutto ed elegante insieme, con poche figure retoriche frutto non di ricercatezza, ma assecondanti un pensiero aperto e capace di problematizzare anche le questioni più pericolose. In breve, lo stile di un agire politico che giganteggia perché argomenta, può convincere perché si affida alla pienezza delle parole, sa che la capacità dialettica è l’essenza della democrazia. «Le parole più tranquille sono quelle che portano tempesta. I pensieri che giungono su ali di colombe governano il mondo» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 102).

            E davvero erano pericolosi quei primi giorni del marzo 1978, quando, caduto il III governo Andreotti, con il Paese sotto il tiro delle Brigate Rosse e di chissà quale altra diavoleria pseudopolitica, Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, con queste parole riuscì a convincere il suo partito della necessità di un “governo di solidarietà nazionale”, vale a dire la presenza del Partito Comunista nella maggioranza parlamentare. Pericolosi quei giorni, a tal punto che 16 marzo Moro fu rapito e si consumò la sua tragedia personale che fu anche tragedia della Nazione.

            Il pensiero moroteo è stato e sarà ancora oggetto di studio di ricercatori su vari versanti, letterario, storico, filosofico. È già stata scandagliata la vasta memoria di scritti, discorsi, articoli e pubblicazioni dello statista, ma qui molto semplicemente si vuole mettere in evidenza dinanzi al cittadino comune che l’eleganza del linguaggio si accompagna sempre alla ricchezza del pensiero. Di fatto, la necessità di una democrazia dell’alternanza Moro l’aveva da tempo ben chiara se nel 1964, essendo alla guida del primo governo di centro-sinistra, parlando al Politeama di Lecce aveva detto:

«Vi saranno bene dei democratici fuori dal Governo. Ma non si tratta di questo, bensì dell’esigenza storica che si allarghi la vita democratica, che forze ostili e ribelli entrino con fiducia nello Stato democratico per assicurare il progresso nella libertà. In questo senso è tutt’altro che indifferente che più vaste forze popolari assumano, possano assumere, vogliano assumere la difesa dello Stato democratico e fare della libertà e della legge il solo strumento della evoluzione economica, politica, sociale».

            Il 23 settembre 1916, nasceva a Maglie (Lecce) lo statista Aldo Moro. Questo è dunque un anno di celebrazioni del primo centenario della nascita di una delle più importanti figure politiche della Repubblica Italiana. È auspicabile che questo anno non venga perso in roboanti declamazioni tra pochi addetti ai lavori, nell’interrogativo sterile se Moro è da considerarsi un eroe o un martire, ma possa essere speso per proporre le sue parole, per mettere in evidenza i tratti esemplari dell’uomo politico, che deve sempre essere capace di orientare, prima ancora di agire.

            E l’agire di Moro, comunque la si pensi, è stato ampio, ragguardevole l’elenco di incarichi ai più alti vertici della politica e per un lungo arco temporale:

            Aldo Moro è stato docente di Diritto all’Università di Bari. Personalità di spicco della Democrazia Cristiana sin dalla sua fondazione, suo rappresentante alla Costituente e segretario nazionale dal 1959 al 1964. Nel 1948, a 32 anni, fu sottosegretario agli Esteri del quinto governo De Gasperi. Due volte premier (1963-1968) e ministro degli Esteri (1969-1974, con brevi interruzioni).

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