Forse non sorprende più la disinvoltura con cui si cambiano opinioni e posizioni politiche: un parasole dietro cui trovare riparo conveniente di fronte a mutate circostanze e nuove prospettive di potere. Purtroppo non si è sottratto a questa tentazione l’ex presidente del Consiglio scoprendo nel Mattarellum la nuova legge elettorale da licenziare al più presto, in modo da chiamare al voto gli italiani in primavera e comunque prima dell’estate. Di conseguenza, niente congresso anticipato da tenere solo dopo una rivincita elettorale immaginata fragorosa, con la piena riconquista del ruolo del capo indiscusso e di nuovo presidente del Consiglio al posto di Gentiloni. Quanto sarebbe stato più coerente mantenere fede all’impegno di ritirarsi almeno per qualche tempo, dalla vita politica, dalla frenesia inarrestabile di dominio ininterrotto del potere e dei suoi agi!
Una seria fase di riflessione, di studio e di cose nuove gli sarebbe stata utile anche per comprendere non superficialmente le cause profonde del voto referendario. Del malcontento e della rabbia dei giovani e delle periferie più disagiate. Fenomeni impressionanti e non solo italiani. Risultati, però, più sorprendenti e ignorati dal quotidiano racconto renziano dell’Italia quantomeno a senso unico e troppo spropositatamente enfatizzato in tv ed in ogni occasione. Sono state, così male usate le pur notevoli capacità dell’ex presidente che non potrà nuovamente investirle con la freschezza e il fascino dei primi tempi. I gravi problemi, del resto, che stanno di fronte all’Italia ed all’Europa non sono un elenco da supermercato da scegliere uno ad uno a proprio piacimento. Si impongono nella loro gravità ed urgenza e spetta alla politica saper dare risposte, non di tattiche e di rinvii, ma di reale comprensione e iniziativa conseguente. Tutto questo è in gran parte mancato, con il solo aggrapparsi al Mattarellum dopo che il renziano Italicum veniva abbandonato alle ortiche. Eppure era stato imposto anche con svariati voti di fiducia definendolo il sistema elettorale che tutto il mondo ci avrebbe copiato.
Questo modo di fare politica che si consuma all’interno di stanchi riti partitocratici, senza veri dibattiti democratici, senza aperture significative alle forze sociali e culturali, ai settori più disagiati, senza capacità di dialogo e confronto, segnano inesorabilmente la crisi della politica e la sua chiusura quasi autistica. Ne conseguono cristallizzazioni delle posizioni di potere e rischio mortale di continui trasformismi, mentre sarebbero indispensabili aperture di orizzonti e la capacità di un grande dibattito comprensibile e apprezzabile dalla più vasta opinione pubblica. Si rischiano, invece, posizionamenti di vario tipo, confronti asfittici, tutti finalizzati a ragioni fondamentalmente di potere. Se la ricerca di tornaconto personale e di gruppo è forse inestirpabile dalla lotta politica, resta ancora più vero specie in tempi così severi il fine dell’agire politico che non andrebbe mai smarrito: la realizzazione del bene comune.