Rivoluzione Trump!

I primi undici, traumatici, giorni da presidente
Grafitti by the illusive artist Banksy adorns a building August 29, 2008 in New Orleans, Louisiana. New works by the artist, whose paintings are also sold in galleries, have been popping up throughout New Orleans coinciding with the third anniversary of Hurricane Katrina.

Immagine: Opera di Banksy a New Orleans che sfotte una delle leggi di quello Stato “Non bighellonare”.

Dall’ordine esecutivo sull’immigrazione a Sally Yates, rimossa dall’incarico di ministra della Giustizia ad interim: Trump non si ferma. I primi undici giorni della presidenza Trump sono stati violenti, inaspettati, spietati. Il neo presidente si è scagliato, a turno, contro un obiettivo e a suon di ordini esecutivi ha stupito tutti per la velocità con la quale sta “demolendo” l’edificio presidenziale concepito da Barack Obama in otto anni. La partenza di Trump è stata quindi schiacciante, subito dopo l’Inauguration Day – 20 gennaio – l’emanazione di un ordine esecutivo per l’abrogazione dell’Affordable Care Act, riforma sanitaria voluta da Obama e nota come Obamacare. Il decreto esecutivo, diretto alle agenzie governative per ridurre il peso dell’Obamacare è stato uno degli snodi fondamentali nel corso della lunga campagna elettorale di Trump. L’obiettivo, aggiunge il decreto, è “creare un mercato di assicurazione sanitaria più libero e aperto”. Anche se solo il Congresso può abrogare la riforma sanitaria voluta dal suo predecessore l’ordine, in 9 paragrafi, dice che il governo federale deve agire nel modo più incisivo possibile per “allentare il peso” sugli individui, gli Stati e l’industria sanitaria. L’ordine esecutivo di fatto non cambia nulla nell’immediato ma indubbiamente manda un messaggio simbolico molto forte a chi lo ha votato. Il primo “urlo” di Trump, diremmo. Prima dei balli inaugurali, dallo Studio Ovale, aveva già firmato la conferma delle nomine di James Mattis a Segretario della Difesa e di John Kelly a ministro della Sicurezza Interna. Nello stesso giorno è stata anche proclamata una “giornata nazionale del patriottismo”. Il 23 gennaio è la volta del ritiro formale degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership (Tpp), formalizzata attraverso un ordine esecutivo. Anche in questo caso le promesse fatte in campagna elettorale hanno subito trovato attuazione (solo dopo tre giorni dall’insediamento!). Washington, quindi, si ritira dall’accordo di libero scambio che coinvolge ben dieci paesi del Pacifico (Canada, Australia, Brunei, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam). L’accordo, perfezionato ad Atlanta nell’ottobre 2015, aveva come scopo l’abbattimento delle barriere al commercio tra le nazioni che rappresentano circa il 40% della produzione economica mondiale. Sempre il 23 gennaio il neo presidente ha re-introdotto il divieto di accedere a finanziamenti pubblici per le ONG che praticano o supportano pratiche d’aborto, voluto dal 1984 dai repubblicani e, a presidenti alterni, tolto e ristabilito negli anni successivi. Trump ha poi incontrato diversi manager dell’industria manifatturiera americana “Vogliamo iniziare a produrre di nuovo i nostri prodotti”, ha detto. Ha esortato loro (c’erano manager della Ford, Lockheed Martin, Dell, Tesla e Dow Chemical) di presentare entro un mese piani di assunzione per aumentare l’occupazione, promettendo sgravi fiscali e una sostanziale semplificazione legislativa. Il 24 gennaio (quattro giorni dopo l’insediamento) Donald Trump firma un decreto che prevede la ripresa della realizzazione dei due oleodotti della discordia: il Keystone XL e il Dakota Access, che erano stati bloccati dall’amministrazione Obama. La realizzazione dei due oleodotti era stata bloccata dall’amministrazione Obama in parte per problemi di carattere ambientale. entrambi i progetti adesso saranno soggetti a rinegoziazione. I Sioux sul piede di guerra: i nativi americani ritengono particolarmente offensivi gli ordini esecutivi firmati da Trump, una conferma – secondo loro – che i loro diritti sono sistematicamente calpestati da Washington. Come non dargli torto…l’oleodotto Keystone – ad ogni modo – riuscirà a trasferire ottocentomila barili di petrolio al giorno dalle sabbie bituminose canadesi alle raffinerie del Texas e dell’Illinois. Inquinamento? Chissenefrega. Ma è il 25 gennaio che Trump sconvolge tutto il Mondo con l’annuncio di dar seguito a quella che – durante la campagna elettorale – sembrava più una boutade non praticabile: la costruzione di un muro al confine col Messico. Tremila chilometri che lambiscono quattro Stati USA e sei Stati messicani, tra il “river borderlands” caratterizzato dalla presenza del fiume Rio Grande (Río Bravo) e il “desert bourderlands” che prosegue dopo il fiume fino alle terre desertiche ad ovest. Le città situate lungo il confine hanno intessuto, negli anni, una fitta rete di relazioni economiche e commerciali. Alcune di esse, infatti, sono state definite “città gemelle”: Tijuana e San Diego, Ciudad Juárez ed El Paso, Nuevo Laredo e Laredo, Matamoros e Brownsville, per un totale di 42 connessioni internazionali lungo il confine. Il progetto di Trump avrà quindi ripercussioni sociali di grave portata, oltre che economico-politiche. Sul muro messicano quel che è da capire è chi lo paga: il Messico come si diceva in campagna elettorale? Difficile che il presidente Enrique Pena Nieto accetti l’invio della fattura di Trump – 10 miliardi di dollari – senza una contropartita sul trattato del Nafta, rimane poi da capire se verrà rinforzata la polizia di frontiera (si parla di 5 mila agenti in più). Era in programma un viaggio del presidente Nieto a Washington, naturalmente annullato al premier messicano. Il 27 gennaio Trump firma, forse, l’ordine esecutivo più controverso (o almeno quello che ha fatto infuriare le cancellerie di mezzo mondo e l’Onu) sugli ingressi da sette paesi islamici: Iran, Iraq, Yemen, Siria, Somalia, Sudan e Libia. In ognuno di questi paesi ci sono le impronte digitali delle operazioni militari americane, in chiaro o coperte, direttamente o indirettamente. A questo blocco verrà associato un generale controllo più severo dei permessi di soggiorno, test più restrittivi sui candidati alla permanenza negli Stati Uniti e la chiusura dei programmi di accoglienza per i rifugiati. È nei poteri del presidente decidere il numero, e il Wall Street Journal rivela quella che potrebbe essere la quota Trump: 50 mila. Quella di Obama fu 110 mila. È la politica di Trump. Nessuna sorpresa, anche se certe sue “uscite” da campagna elettorale si pensava restassero, appunto, confinate alla comunicazione aggressiva da “presidenziali” mentre stanno, giorno dopo giorno, trovando attuazione immediata e senza troppi fronzoli. Il primo incontro con un premier estero è avvenuto il 27 gennaio, Trump ha ricevuto alla Casa Bianca la britannica Theresa May, la Special relationship che lega Stati Uniti e Regno Unito. Il legame più solido tra le due parti dell’Atlantico, ma che va rinnovato e rafforzato alla luce di circostanze e leader nuovi. “La Brexit sarà fantastica per il vostro Paese“ ha detto Trump, ricordando che lui l’aveva prevista. “Avrete la vostra identità e le persone che vorrete nel vostro Paese, potrete fare accordi commerciali liberamente senza che nessuno vi guardi”. Ed è questo il messaggio che Theresa May riporta forte e chiaro a Londra, la garanzia che nell’incertezza per la nuova strada fuori dall’Europa si può guardare all’America con fiducia. “Dobbiamo ridare prosperità ai nostri popoli“ ha affermato quindi May, indicando la missione comune. Eppure la May sembra venuta a Washington anche ad attutire qualcuno degli acuti di Trump, proponendosi in cambio di intercedere ancora presso i partner europei. E arriviamo a oggi. L’ordine esecutivo firmato dal nuovo presidente sull’immigrazione continua a scatenare polemiche e malumori, sia negli Stati Uniti sia fuori. Uno scontro durissimo con la ministra della Giustizia ad interim Sally Yates ha portato alla sua rimozione, al suo posto è stata nominata Dana Boente – procuratore per il distretto orientale della Virginia – che si è detta pronta ad applicare il decreto immigrazione. Intanto un documento interno del dipartimento per la Sicurezza fornisce un primo bilancio dell’attuazione del provvedimento varato da Trump, che nei giorni scorsi ha provocato il caos negli aeroporti: a 348 persone in possesso di visto è stato impedito di imbarcarsi su voli diretti negli Stati Uniti; più di 200 sono arrivate negli Usa ma è stato loro vietato l’ingresso; oltre 735 sono state trattenute negli scali per essere interrogate e tra loro 394 avevano la carta verde, quindi erano legalmente residenti negli States. Obama, nella sua prima dichiarazione post presidente, si è detto “preoccupato, a rischio i nostri valori!”. Quali saranno le prossime mosse? Di sicuro dovremo abituarci a una conduzione politica più simile alla Casa Bianca di Frank Underwood di House of Cards che allo stile istituzionale, seppur controverso, dei quarantaquattro predecessori di Trump.

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