Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Alla mezzanotte italiana (le 6 sulla costa Est) si sono chiusi i primi seggi in Kentucky e in Indiana, entrambi considerati “safe” per i repubblicani e dove Trump ha vinto senza sorprese per poi conquistare subito anche il West Virginia e dare il via al conto alla rovescia. Ora dopo ora gli Stati hanno iniziato a colorarsi di rosso facendo spiccare, ancor di più, il blue della California e della Est coast, vessilli quanto mai solitari di una Hillary che perdeva sempre più terreno nei confronti di Trump. Anche alcuni dei tradizionali “Blue wall State” hanno cambiato colore, in particolar modo quelli dell’area “Great Lakes region” dove Trump si è aggiudicato il Wisconsin, la Pennsylvania, l’Ohio, l’Indiana e il Michigan. Fedeli a Hillary l’Illinois e il Minnesota. Ma sono stati il Texas – di tradizione repubblicana – e soprattutto la Florida – swing state (Stato in bilico) – a disegnare nel corso della notte i contorni della vittoria storica di Donald Trump. Poi, a seguire, la Carolina del Nord e quella del Sud, che insieme sommano altri 24 grandi elettori. Una débâcle a sorpresa, per i sondaggi. A sorpresa per l’opinione pubblica europea. A sorpresa per Obama, che tanto aveva tirato il “carro” di Hillary in queste ultime settimane mettendoci fino all’ultimo la faccia. A sorpresa per lo stesso establishment repubblicano che, paradossalmente, non ha mai amato il suo candidato sui generis. A sorpresa, forse, per lo stesso Trump che oggi si trova dove nemmeno lui – nel profondo della sua instabile anima politica – sperava. Come cambierà l’America? È presto per avventurarsi in scenari a lungo termine. Di certo l’aria spregiudicata a tratti isterica del candidato repubblicano nel corso di questa dimenticabile – e lunga – campagna elettorale è evaporata poche ore fa nel corso del primo discorso da nuovo presidente eletto. Donald Trump ha infatti usato parole “leggere” ma tendenti all’unione, anche questa è stata una sorpresa: “Per repubblicani e democratici è arrivato il tempo dell’unione. Dobbiamo collaborare, lavorare insieme e riunire la nostra grande nazione. Ho appena ricevuto le congratulazioni di Hillary Clinton e io mi congratulo con lei. La nostra non è stata una campagna elettorale, ma un grande movimento” ha dichiarato Trump. Emozionato, è salito sul palco con la famiglia al completo, Melania, la nuova First Lady vestita di bianco, e tutti i figli. Come colonna sonora la musica di Independence Day. “Prometto che sarò il presidente di tutti gli americani”. Ha poi parlato di lavoro, di grandi infrastrutture ed in generale ha posto l’accento su temi di politica interna promettendo nuove opportunità ma soprattutto riaccendendo il fuoco spento del “sogno americano”. Trump ha trionfato nelle aree del Paese a forte presenza di elettori bianchi, facendo molto meglio di Mitt Romney sconfitto nel 2012 da Barack Obama. Mentre Hillary Clinton non è riuscita nell’impresa di attirare i voti delle minoranze che furono la chiave dei successi del presidente uscente. Le borse mondiali intanto “ballano”, con Tokyo in forte oscillazione. La Clinton, è evidente, non ha saputo parlare alla “pancia” del Paese, Trump invece vi ha puntato sin dall’inizio della corsa presidenziale, non ha coinvolto i giovani, viatico salutare dell’ex presidente Obama, né convogliare a sé l’elettorato delle aree più depresse degli Stati Uniti. A chiusura di una delle più scadenti elezioni presidenziali della storia americana, per qualità e stile dei due candidati, le parole di Obama – pronunciate prima del risultato – risultano profetiche: “A prescindere da quello che succede, il sole sorgerà al mattino e l’America rimarrà ancora la più grande nazione del mondo”.
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