Una delle espressioni più celebri del romanzo Clelia di Giuseppe Garibaldi recita: “I popoli ben governati e contenti non insorgono. Le insurrezioni, le rivoluzioni, sono la risorsa degli oppressi e degli schiavi e chi le fa nascere sono i tiranni”.
Credo sia un ottimo punto di partenza per riflettere sulle rivolte civili a cui stiamo assistendo in molte parti del mondo. Forse Libano, Hong Kong, Cile, Catalogna e Iraq, per dire dei più recenti, possono sembrarci realtà profondamente diverse tra loro, e lo sono in effetti, ma non possiamo negare che esiste un filo che le unisce tutte.
Il giornalista Ugo Tramballi in un articolo per ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) vede nella disparità economica una causa comune nelle proteste, o meglio la vede nell’incapacità dei governi di rispondere efficacemente all’iniqua distribuzione della ricchezza.
Era dalla fine degli anni novanta che non si assisteva a un così alto numero di proteste, ovvero da quando si è iniziato a dubitare del nuovo sistema economico, il capitalismo globale. Un sistema economico legato a doppio filo con le organizzazioni politiche che dovrebbero disciplinarlo e che invece ne sono disciplinate.
Hong Kong è una regione amministrativa speciale della Cina. Il Libano è una repubblica parlamentare. Il Cile è una repubblica presidenziale. La Catalogna è una comunità autonoma spagnola. ? Iraq è una repubblica parlamentare federale. Tanti sistemi politici diversi, una sola risposta da parte della popolazione: le proteste di piazza. Questo con buona pace di quanti ancora credono che sia la forma e non la sostanza a fare la differenza quando si tratta di governare.
Un altro elemento comune, aggiungo io, è la risposta violenta e repressiva da parte dei governi. Se per alcuni può risultare più facile girarsi dall’altra parte e fingere di non vedere quello che accade in Cile, per esempio, dove ragazzini di appena dodici anni vengono incarcerati e dove la repressione delle proteste ha già lasciato la sua scia di morti, meno facile è fare finta di nulla quando la stessa violenza la si trova a un’ora di aereo da qui, quando sono i cugini spagnoli a raccontarcela.
Dopo solo una settimana di proteste, iniziate il 14 ottobre con l’occupazione dell’aeroporto di El Prat a Barcellona (sulla scia dell’esempio dell’occupazione dell’aeroporto di Hong Kong), si contano già 600 feriti e almeno duecento arresti. Per le strade della città è ormai guerriglia urbana e la polizia non si fa scrupoli di usare la violenza contro i manifestanti. Nessuno può dimenticare le immagini delle persone prese a calci e pugni mentre sedevano pacificamente per terra per affermare il loro diritto di voto, persone anziane, donne, ragazzi. A due anni da allora la risposta governativa non è cambiata, anche se al potere adesso c’è qualcun altro, anche se il premier appartiene a un partito politico molto diverso da quello a cui apparteneva il premier che c’era due anni fa.
Più o meno negli stessi giorni della Catalogna, anche in Cile la gente scende in piazza e anche qui la risposta del governo è una repressione brutale che fa vittime, feriti e migliaia di arresti. ? Istituto nazionale per i diritti umani ha registrato testimonianze di torture, spari contro civili disarmati, denudamenti e maltrattamenti, arresti di minori, violenze fisiche e verbali. Molti dei giornalisti che hanno cercato di testimoniare quello che sta accadendo sono stati arrestati mentre svolgevano il loro lavoro, come la collega Claudia Aranda dell’agenzia Pressenza.
Sempre e ancora negli stessi giorni a Beirut e diverse altre città del Libano si susseguono proteste e manifestazioni di piazza, come già da un mese accade nel vicino Iraq. Nasce forse una nuova primavera araba, ma le motivazioni non sono poi così dissimili da quelle che smuovono Hong Kong, Catalogna e Cile: la fine delle disuguaglianze economiche e sociali.
Ma mentre l’Iraq segue l’esempio dominante e tenta di soffocare le ribellioni col sangue, in Libano si respira un’altra atmosfera. Tutte le proteste civili di cui si è parlato sino a ora nascono non violente e vengono respinte con la violenza. Ma in Libano qualcosa è andato diversamente. Sarà stata la scelta di usare l’arte come forma di protesta oppure la catena umana di ben 170 km che ha unito migliaia di libanesi da Tripoli a Tiro, ma il risultato sperato non ha tardato a manifestarsi. Mentre scrivo questo articolo infatti apprendo che il premier libanese Saad Hariri ha rassegnato le sue dimissioni.
Usare la forza per reprimere la voce di chi protesta, soprattutto di chi protesta pacificamente, è una strategia che non paga. Sempre nell’articolo di Tramballi c’è un monito per quei politici che sono interessati più all’apprezzamento dei tweet dell’ultima ora che alle politiche lungimiranti di grande respiro. Ma se pensiamo che è proprio grazie ai tweet che molte proteste sono state possibili, che molte persone hanno potuto unire le loro voci nelle piazze reali a discapito dei like virtuali, allora non possiamo che essere d’accordo con Garibaldi affermando che sono i tiranni a far nascere le stesse rivoluzioni destinate a spodestarli.