Milano, Palazzo Clerici– “Iran-Usa: nuovi venti di guerra in Medio Oriente”, questo il titolo della conferenza indetta da Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) per dibattere su quanto accaduto dopo l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani a seguito di un’operazione mirata da parte degli Stati Uniti.
Come si è arrivati a questo punto? Qual è il significato dell’azione americana e della risposta iraniana? Cosa dobbiamo aspettarci in futuro?
Il primo a intervenire è Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies (IGS), che ci parla della reazione dell’Europa, percepita come schiacciata su più fronti. Da un lato infatti l’Iran non la considera più come un interlocutore valido, dall’altro, internamente, la dichiarazione congiunta di Germania, Francia e Regno Unito, dove l’Iran viene invitato a ritirare tutte le misure non in linea con l’intesa sul nucleare, ha scatenato più di qualche malumore. ? impressione infatti è che le cancellerie centrali agiscano autonomamente senza cercare invece un fronte istituzionale comune ed europeo da cui agire. Manca dunque un quadro negoziale comune.
La relatrice Annalisa Perteghella, ricercatrice ISPI, fa un passo indietro e allarga la cornice illustrando l’escalation delle operazioni militari a partire dall’attacco sferrato a Kirkuk il 27 dicembre 2019. Un attacco attribuito alle milizie iraniane e che è costato la vita di un contractor americano, ferendo anche diversi militari iracheni e americani. La risposta statunitense non si fa attendere e due giorni dopo alcuni raid aerei colpiscono diverse basi delle milizie iraniane, 25 militari iracheni perdono la vita. Il 2019 si chiude con le immagini delle milizie iraniane che prendono d’assalto l’ambasciata americana a Baghdad.
Il 3 gennaio il generale Soleimani e Abu Mahdi al Muhandis, leader della milizia sciita e numero due dopo Soleimani, perdono la vita in un attacco lanciato da un drone statunitense. Dopo tre giorni di lutto nazionale durante i quali le aspre dichiarazioni di vendetta si alternavano alle immagini di una immensa folla che piangeva il suo generale, l’Iran risponde attaccando due basi militari americane in Iraq.
Come fa ben notare Pejman Abdolmohammadi, ricercatore dell’Università di Trento e ricercatore associato Ispi, questa escalation si assomma alla già turbolenta situazione interna irachena. Una situazione segnata da più di un mese di proteste civili, proteste che hanno interessato anche paesi vicini, come il Libano e lo stesso Iran. La risposta del governo iracheno al dissenso civile è stata anzitutto quella di chiudere ogni canale di comunicazione, compresi e soprattutto social e web. In questo modo nessuno ha potuto davvero capire cosa stesse succedendo, nel frattempo però migliaia di persone hanno perso la vita, represse in maniera violenta e anche per mano degli stessi Pasdaran, ovvero il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, di cui Soleimani era il capo. C’è dunque una buona parte della popolazione irachena che non aveva alcuna simpatia per Soleimani.
Un altro aspetto molto interessante sottolineato da Abdolmohammadi riguarda ancora la figura di Soleimani. Non era solo un generale di alto rango, ma il capo dell’azione di espansione della Repubblica Islamica nella regione, la mente dietro alle penetrazioni che hanno interessato paesi com la Siria, il Libano e lo stesso Iraq. Questo ci può ragionevolmente far pensare che Trump, eliminando Soleimani, abbia semplicemente messo in atto un’azione strategica iniziata già nel 2017 e che ha come obiettivo finale quello di ridimensionare i confini della Repubblica Islamica riportandola al punto di partenza.
Cinzia Bianco, membro dell’ECFR (European Council on Foreign Relations), contribuisce ad arricchire il quadro parlando delle monarchie del golfo e in particolare di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Fermo restando la diversità anche molto ampia fra uno stato e l’altro di quelli che affacciano sul golfo Persico, sicuramente quello che salta all’occhio è la presa di distanza dall’azione americana. Emirati Arabi e Arabia Saudita adesso vedono con occhio diverso agli Usa, soprattutto in virtù del fatto che nessuno di loro è stato avvertito dell’operazione Soleimani. Gli Usa mostrano i denti solo quando in gioco ci sono direttamente gli interessi americani e non anche quelli degli alleati. Senz’altro c’è chi silenziosamente festeggia per la scomparsa di Soleimani ma è indubbio che è stato anche aperto un canale di dialogo indiretto con l’Iran. Diciamo una sorta di assicurazione rispetto a ciò che più preoccupa i paesi del golfo, ovvero la loro posizione geografica.
Interessante anche il punto di vista di Gianluca Pastori, professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che inserisce l’azione americana all’interno di un più ampio insieme di azioni che hanno come obiettivo non la terza guerra mondiale ma bensì la possibilità di negoziare da una posizione di forza. I richiami sono alla Guerra Fredda quando si usava il metodo della deterrenza, Trump agita il pugno per poi sedersi a parlare, così da far capire al suo interlocutore con chi ha a che fare.
In conclusione, considerato che per coronare la serie di successi ottenuti durante la sua presidenza Donald Trump ha sicuramente bisogno di incassare anche un successo di politica estera, più che aspettarci una nuova escalation di violenze forse possiamo ottimisticamente sperare in una nuova fase di negoziazione fra Iran e Stati Uniti, con un’Europa purtroppo disunita ed eccessivamente silente.
immagine da : https://it.wikipedia.org/wiki/File:Nasrallah_Khamenei_Soleimani.jpg