La crisi economica mondiale dovuta alla pandemia da Covid-19, la recente vittoria di Joe Biden su Donald Trump alle presidenziali USA e il continuo “braccio di ferro” tra Boris Johnson e Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, sulla Brexit hanno caratterizzato questo 2020 (di certo) non privo di colpi di scena.
In Cina si è svolto a fine ottobre il V Plenum del Comitato centrale del Partito comunista, evento di grande importanza nell’ambito di quella “liturgia politica” che da sempre caratterizza il Pcc, durante il quale solitamente vengono elaborate le strategie economiche del Paese. Dove va la nuova Cina di Xi Jinping?
Il presidente, proprio in quei giorni, ha visitato il sito simbolo della prima zona economica speciale (creata 40anni fa): Shenzhen, passata da circa 20mila a 13,5 milioni di abitanti in quarant’anni, la “finestra” principale per l’ingresso di capitale straniero e tecnologia in Cina. Principale centro industriale tecnologico del gigante asiatico a Shenzhen c’è la Foxconn, fabbrica più grande al mondo della con stime approssimative che indicano dai 250mila ai 500mila lavoratori impiegati. Qui si trova anche la Tencent, proprietaria di Clash Royale, Oukitel, Doogee, TP-LINK, Globalegrow e OnePlus, brand costruttrici di dispositivi di telefonia mobile e di comunicazioni, ma soprattutto la casa madre di Huawei, colosso mondiale della telefonia mobile e degli apparati di networking.
Shenzhen, infine, è diventata la quarta città più grande della Cina superando Hong Kong, in termini di economia e popolazione, nel 2017. E allora? Proprio qui Xi Jimping ha celebrato e chiuso quel processo che ha portato alla creazione della “fabbrica del mondo” cambiando il lessico vigente. Le parole d’ordine, adesso, sono “doppia circolazione”, mercato interno e autarchia tecnologica.
Lo scontro con gli USA andato in scena negli ultimi turbolenti quattro anni di presidenza trumpiana, la pandemia e l’instabilità delle politiche economiche targate UE hanno spinto Xi Jimping a potenziare, secondo molti analisti, il “ciclo domestico” chiedendo alle aziende che producono per l’estero di convertirsi al mercato interno. Scelta epocale si direbbe, bisogna però comprendere come la manovra serva per contrastare la nuova crisi che ha portato alla diminuzione delle esportazioni, oltre a una più spiccata presa di coscienza da parte delle classi lavoratrici circa i modelli occidentali di spesa.
Insomma, per non dipendere dai mercati stranieri la Cina punta al proprio bacino interno, consapevole del rischio, sancendo così il passaggio – vedremo se duraturo – della Cina da luogo di produzione a luogo di consumi. La chiave di volta per far volare nuovamente l’economia cinese potrebbe essere rappresentata dall’immenso programma di urbanizzazione in corso per trasformare milioni di lavoratori migranti in abitanti della città così da espandere la classe media cinese (ad oggi circa 400milioni di persone).
Questo “sdoppiamento” della Cina dall’economia a stelle e strisce nasce anche dall’esigenza di rendersi indipendenti dai mercati stranieri in particolare dai prodotti tecnologici e dai produttori americani. I dazi e i blocchi alle esportazioni dei microchip in Cina da parte americana hanno messo in grande difficoltà il comparto tecnologico cinese.
L’obiettivo dichiarato? Arrivare al 2035 in una situazione di “moderata prosperità” tra le celebrazioni per il centenario del Partito comunista (1921) e quelle del centenario della nascita della Repubblica popolare (1949). Nel 1938 la Cina era ancora un paese semifeudale, i passi in avanti sono stati enormi. Prepariamoci dunque a questa nuova “guerra prolungata” quindi, concetto maoista caro a Xi Jimping per descrivere il ruolo della Cina di fronte alle minacce USA, ma per fortuna non ci saranno armi di mezzo.