Senza andare a scavare troppo nel passato, sono sufficienti anche le prime uscite dell’amministrazione Biden per capire come quello che ha rappresentato un pilastro dell’approccio strategico di Londra e Washington – vuoi per la struttura anarchica del sistema internazionale, vuoi per il fattore geografico – non sarà messo in discussione proprio in un momento storico in cui alcuni leader del nostro continente non fanno troppo mistero del loro progetto di smarcare l’Unione Europea dagli Stati Uniti. Dopo circa un ventennio in cui i documenti strategici della Casa Bianca non menzionavano più l’Europa tra le aree prioritarie per gli interessi americani, la recente Interim National Security Strategic Guidance (INSSG) l’ha riposta al centro dell’attenzione insieme al quadrante Indo-Pacifico e all’emisfero occidentale (si veda https://bit.ly/3cX5R4x). Scrive a chiare lettere Biden che gli Stati Uniti si impegneranno nel ricostruire una partnership transatlantica solida per «forgiare una forte e comune agenda con l’Unione Europea e il Regno Unito». Un’agenda non pensata «per contrastare le sfide del passato, ma quelle del presente e del futuro». E dalla lettura del documento emerge in tutta evidenza come quelle prioritarie tra queste siano il revisionismo cinese e le minacce che gravano sulle dimensioni sanitaria, cyber e dell’innovazione tecnologica. Rispetto a tali sfide, l’amministrazione Biden rivendica la necessità di coesione tra «le democrazie del mondo» per contrastarle da quella che – con un linguaggio mutuato dalla Guerra fredda – potrebbe essere definita una “situazione di forza” (si veda https://brook.gs/3lnLT7a).
Ciò nonostante, molti osservatori sembrano essersi dimenticati che l’incubo di un soggetto egemone sul continente europeo, magari in grado di stringere accordi con la Russia, non sia una semplice reminiscenza del passato ma costituisca per Washington un pericolo che potrebbe dover essere affrontato – sebbene sotto forme nuove e con mezzi diversi – anche in futuro. La Guerra fredda ha alimentato questa nemesi, poiché il confronto titanico tra le due superpotenze non solo serrò i ranghi del mondo occidentale di fronte alla comune minaccia sovietica, ma smascherò anche il velleitarismo di ogni rivendicazione di autonomia europea nei confronti della Casa Bianca e del Cremlino. Si pensi al doppio fallimento del 1956, quello della crisi di Suez in cui incapparono gli alleati “minori” del blocco occidentale e quello della rivolta di Budapest in cui incappò uno dei Paesi del Patto di Varsavia. Anche negli anni Novanta, tuttavia, la musica rimase la stessa, con Bruxelles che dimostrò a più riprese di avere bisogno che Washington le togliesse le castagne dal fuoco nei Balcani (1995 e 1999) e tirasse la volata dell’allargamento a est delle strutture euro-atlantiche (1999 e 2004) di fronte all’opposizione di Mosca.
Nell’ambito di un vero e proprio climax – seppur lento e sempre ornato dalle dichiarazioni di rito sull’irreversibilità dei rapporti transatlantici – il registro europeo nei confronti degli Stati Uniti è cambiato già all’indomani dell’11/9 e con evidenza ancora maggiore negli anni Dieci del XXI secolo. Si pensi alla resistenza opposta da Francia e Germania in sede ONU all’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq nel 2003, così come al mancato rispetto dell’obiettivo del 2% del PIL in difesa assunto in sede NATO, fino al sostanziale sabotaggio da parte europea del TTIP con Barack Obama ancora presidente e alle tante scaramucce commerciali negli anni di Donald Trump (dalla guerra dei dazi alla questione Nord Stream 2). Senza dimenticare i progetti della PESD – criticati già dal segretario di Stato Madeleine Albright che ne denunciò i pericoli di duplicazione, divisione e discriminazione rispetto alla NATO – e della PESCO, a cui appena è stato possibile gli Stati Uniti hanno fatto richiesta di adesione al programma di mobilità militare (si veda https://bit.ly/3cdbLzH).
Parallelamente, sia l’Unione Europea che alcuni dei suoi leader più in vista hanno cominciato anche a teorizzare, oltre che a praticare, lo smarcamento dalla sponda opposta dell’Atlantico. Nella European Global Strategy del 2016 se ne trova un indizio significativo, laddove si parla della necessità di una maggiore integrazione nel settore europeo della sicurezza e di un maggiore impegno in tema di difesa della UE (si veda https://bit.ly/393ngr7). È negli ultimissimi anni, tuttavia, che si è verificato un vero e proprio salto di qualità. Particolarmente rilevante a tal proposito è l’idea dell’Open Strategic Autonomy in campo economico rivendicata dalla Commissione Von der Leyen, laddove l’aggettivo “aperta” sta a indicare l’assenza di qualsivoglia velleità autarchica, ma il sostantivo “autonomia” – come di recente spiegato dal Direttore generale per il Commercio dell’Unione Europea Sabine Weyand (si veda: https://bit.ly/3c22DOb) – segnala la volontà di tracciare una rotta indipendente. A questo posizionamento in campo economico fa da pendant la dottrina strategica abbozzata da Emmanuel Macron. Intervistato sulle colonne di Le Grand Continent (si veda https://bit.ly/3c8bi1k), il presidente francese ha rilanciato la necessità di «pensare in termini di sovranità europea e di autonomia strategica, in modo da poter contare da soli e non diventare il vassallo di questa o quella potenza senza avere più voce in capitolo».
Ma, esattamente, rispetto a chi o a cosa la Weyand e Macron vorrebbero che l’Europa diventasse indipendente e non fosse più vassalla? Nonostante la Weyand abbia spiegato che «una forte cooperazione transatlantica è parte integrante dell’autonomia strategica europea» e Macron abbia ribadito che tra le due sponde dell’Atlantico esistono «legami profondi» viene il sospetto che siano proprio gli Stati Uniti il principale destinatario di tali messaggi.
La rivendicazione d’autonomia è stata messa in pratica anche dopo la sconfitta elettorale di Trump, assumendo contorni neanche troppo eleganti. Il caso più eclatante è stato quello della sigla del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) con la Repubblica Popolare Cinese alla fine 2020. Dopo anni in cui l’accordo era rimasto a decantare, il suo processo di firma ha subito un’accelerazione repentina nei mesi di novembre-dicembre. È così maturato negli ultimi giorni di presidenza tedesca del semestre europeo ed è stato stipulato alla presenza (virtuale) di Angela Merkel, Xi Jinping, Ursula Von der Leyen, Charles Michel e – con irritata sorpresa di Palazzo Chigi – anche di Macron (si veda https://bit.ly/3bNnvZq). Forse non tutti a Washington conoscono l’adagio di Giulio Andreotti per cui «a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca», ma è probabilmente quello che in molti hanno pensato di fronte alla scelta europea di firmare il CAI proprio mentre l’amministrazione Trump era dimissionaria (oltre che in mezzo a una bufera politica) e l’amministrazione Biden ancora doveva insediarsi e, quindi, era ancora senza poteri (sospetto avanzato da molti commentatori anglosassoni, tra cui quelli del Financial Times https://on.ft.com/3ljRawc).
L’ultimo caso di traduzione in realtà dell’autonomia strategica europea ha preso forma in tema di vaccini, destando nuove preoccupazioni alla Casa Bianca. Dalle aperture della Germania alla produzione del vaccino russo Sputnik in Europa alla sostanziale messa in stato d’accusa dell’anglo-svedese AstraZeneca (si veda https://on.wsj.com/3fgCWeT). È così che è maturato il diniego del responsabile operativo della campagna di vaccinazione americana Jeffrey Zients alla richiesta di aiuto del commissario all’Industria Ue Thierry Breton in un recentissimo vertice (https://bit.ly/3vQc1Mw). Alla luce di questi eventi potrebbe essere inquadrata anche l’ultima battuta di Biden su Putin “il killer”. Escludendo l’ipotesi della gaffe, non credendo che la Casa Bianca consideri la Russia una minaccia pari a quella cinese (basti verificare la differenza di attenzione dedicata ai due Paesi revisionisti nella INSSG) e non reputando la dichiarazione alla ABC come un gesto capace di intimorire la delegazione cinese che si apprestava a incontrare quella americana al summit di Anchorage, allora i principali destinatari della battuta potrebbero essere proprio Berlino e, di riflesso, Bruxelles (si vedano anche Savini e Riggi https://bit.ly/2QtFxHT). La prima, in particolare, dalla prospettiva americana dovrebbe essere un po’ più accorta nello stringere affari con un “killer”, soprattutto se questi chiamano in causa la salute dei cittadini europei e una delle dimensioni in cui si sta materializzando la sfida al primato americano.
*Gabriele Natalizia,
Geopolitica.info – Sapienza Università di Roma