Un conflitto che dura da dieci anni, una democrazia ancora lontana ma soprattutto una crisi umanitaria ormai da tempo in atto, dove a rimetterci sono civili donne e bambini. Tutti temi che da un decennio preoccupano il mondo, di cui le maggiore testate e organizzazioni di aiuti umanitari parlano e continuano a parlare (si veda lo Speciale Siria) , tuttavia talvolta dimenticando che gli occhi e la bocca, che ci mostrano e testimoniano il calvario della Siria, sono molto spesso di donne. Quest’ultime, pur essendo etichettate nel loro paese come inferiori ed essendo costrette a subire violenze psico-fisiche, non si arrendono alla guerra e a quel mondo maschilista che le schiaccia, ma nel silenzio danno voce e raccontano la guerra dal punto di vista femminile. Una guerra che non è più di supremazia tra potenze straniere o guerra civile, che dir si voglia, ma un conflitto che si fa donna.
Le donne in Siria purtroppo stanno scontando un altro tipo violenza diversa dalla guerra civile scoppiata dieci anni fa, esse pagano il prezzo di una violenza di genere, dove lo “stupro di massa” è divenuto una pratica molto diffusa: dunque vittime, schiavizzate e violentate da una guerra che non hanno scelto. Le infamità del conflitto hanno al centro da sempre abusi contro le donne la cui responsabilità molto spesso ricade su tutte le parti in campo, dai jihadisti dello Stato Islamico ad altri gruppi ribelli, dai combattenti curdi al regime, con il conseguente calvario dello stigma sociale che le vede spesso abbandonate dalle famiglie stesse in quanto considerate disonorate. Costrette a crescere i loro figli da sole, rivestire il ruolo di entrambi i genitori, e Dio non voglia che questi figli siano femmine, in questo caso anche evitare ad esse il loro stesso triste destino.
Eppure sono state definite «donne che resistono», riorganizzando la società civile e dimostrando in questo un grande coraggio e una grande dignità. Come? Combattendo per i loro ideali e dando voce a tutto questo. Ed così che entrano in gioco le giornaliste siriane, che sottolineano il loro compito non semplice: denunciare le violenze, scrivere, e far parlare con le proprie voci le vittime, le sopravvissute. Rendere pubbliche tutte le forme di violenza, non solo quelle fisiche e sessuali, ma anche quelle meno ovvie, tramandate “a fin di bene”, come i matrimoni precoci e l’insegnamento dei mestieri tipicamente femminili. Coloro che erano riuscite a sfuggire da un futuro precario, raggiungendone uno migliore, tornano in Siria e si fanno portavoce di chi al contrario non è riuscito ad assicurarsi una vita migliore. Le aiutano ad auspicare e a pretendere una condizione diversa, ma soprattutto le spronano a farsi sentire e a raccontare ciò che da anni sono costrette a sopportare.
Questo fa Zaina Erhaim una giornalista professionista che in una recente intervista all’AGI racconta di come ha formato centinaia di citizen journalist sul campo «trasferendo loro la conoscenza e l’esperienza che ha acquisito lavorando alla BBC». Un grande successo quello di Zaina dal momento che le donne che essa stessa aveva formato hanno deciso di fare lo stesso a loro volta con altre.
Dunque un compito arduo quello delle donne siriane, che tuttavia non possiamo far altro che raccontare e dal quale prendere esempio. Scrivere, tramandare, ma soprattutto essere libere di riportare ciò che spesso viene occultato per mancanza di mezzi fondamentali o per paura che il farlo possa nuocere in qualche modo, questo il compito di una giornalista siriana ma in primis di ogni donna.