E’ la storia che si ripete nella sua forma più tragica, come l’11 settembre, corpi che cadono nel vuoto dell’indifferenza occidentale. Le immagini “inchiodano” gli uomini alle loro responsabilità e spesso “parlano” più dei fiumi di parole della diplomazia. I talebani prendono il potere in un ferragosto infuocato, Kabul di fatto si è consegnata ai “terroristi in motocicletta”.
Ci sono voluti due anni – ha ricordato Paolo Garimberti – perché i vietcong conquistassero Saigon dopo l’accordo firmato nel 1973 a Parigi da Henry Kissinger e Le Duc Tho, che sancì il ritiro delle truppe americane dal Vietnam. I talebani ci hanno messo solo due mesi a impadronirsi di Kabul dopo l’annuncio di Joe Biden del ritiro dall’Afghanistan prima del ventesimo anniversario delle Twin Towers. Presagio.
Rinasce l’Emirato islamico vent’anni dopo l’intervento militare di Stati Uniti & Co. che oggi si defilano. Tradimento? Intanto questo mezz’agosto verrà ricordato per le immagini dell’aeroporto di Kabul con migliaia di cittadini aggrappati ai cancelli, donne e bambini in preda al panico e un’evacuazione confusa e isterica. I talebani sono in città, è saltata la linea di comando, Kabul è stata consegnata dalle forze armate prive di indirizzo, di leadership, corrotte e demotivate mentre ministeri e uffici di polizia si svuotavano in fretta. E adesso?
La storia è stata già scritta, era il sogno di Trump ma è stato Biden a realizzarlo. “Non possiamo abbandonare un popolo che da quarant’anni cerca la pace” ha postato lo scrittore afghano Khaled Hosseini (Mille splendidi soli). “Una macchia per l’Occidente” secondo Bernard-Henry Lévy e via così, il “nostro mondo” si scopre più nudo. Siamo quindi di fronte all’ingenuità di un politico che non ha il senso della storia e della tragedia o è il cinismo di un presidente che sta già pensando alla sua rielezione e alla “pancia dell’America” stanca delle “guerre infinite”? Probabilmente tutt’è due. Una nuova tendenza a “stelle e strisce” inaugurata da Barack Obama quando rinunciò a far rispettare in Siria la linea rossa imposta ad Assad per impedirgli di far ricorso alle armi chimiche, strada imboccata poi da Trump che sacrificò alleati curdi in Iraq prima e poi in Siria e ripresa oggi da Biden in questo totale abbandono in mondovisione.
Il tramonto dell’uguaglianza. I talebani in città significano anche migliaia di donne – che avevano scoperto il gusto dell’uguaglianza – costrette nuovamente nelle loro “prigioni di tela”, è stata proclamata la sharia e le scene di lapidazione filmate nei mesi scorsi nei villaggi sperduti del paese si ripeteranno nel cuore di Herat, Kandahar, Kabul. Città di alta civiltà dove il popolo afghano aveva abbracciato il “sogno democratico”. Il trionfo della barbarie che corre in motocicletta e kalashnikov. Nella capitale è scattata la caccia alle donne, una giornalista afghana racconta a Repubblica “I talebani ci cercano per le strade, dobbiamo nasconderci, ci ributteranno sotto i burqa, che è come morire lentamente”. Tragedia nella tragedia. Diritti faticosamente conquistati sono stai persi in poche ore. La scrittrice afghana – nata negli USA – Nadia Hashimi scrive “Quando le tv si spegneranno gli islamisti non avranno più ostacoli”.
L’evacuazione dei diritti umani. Intanto, Joe Biden assediato da un coro di critiche rievoca gli sbagli dei suoi predecessori e afferma che i diritti umani non possono essere difesi con impegni militari senza fine, è il tramonto di un’idea di America che ci aveva cullato dolcemente dopo la Seconda guerra mondiale, o forse era già tramontata e non ce n’eravamo accorti. Secondo l’esperto di Difesa della Brooking Institution Michael O’Hanlon per gli USA il ritiro è un boomerang, più impopolare dello sforzo bellico.
Secondo il New York Times l’evacuazione degli americani da Kabul riflette la storia di vent’anni di guerra segnati dalla disconnessione tra la diplomazia americana e la realtà sul terreno. Quale che sia l’esito dei fatti di queste ore è lecito immaginare che la fiducia degli alleati nella leadership americana e di Joe Biden e il suo “club” delle democrazia si sia incrinata. Come ha scritto il giornalista britannico Gideon Rachman “la fine di Kabul è l’inizio del mondo post-americano”.