Roma, 17 agosto 2021 – Capire cosa stia accadendo in Siria è difficilissimo ma mantenere i riflettori accessi è essenziale per non lasciare a sé stessa la popolazione. Parlare con fonti dirette è complicato e anche avere immagini dell’interno del Paese è pressoché impossibile. Le agenzie stampa non hanno quasi più dei corrispondenti diretti e le notizie che vengono battute sono riportate da altri e cioè quasi sempre i referenti delle organizzazioni non governative e internazionali che sono ancora presenti nel territorio.
È di questi giorni, ad esempio, l’agenzia lanciata da ADN Kronos che riporta, tramite Bertrand Bainvel, vice direttore regionale dell’Unicef per il Medioriente e il Nord Africa, che dall’inizio di luglio sono morti o feriti circa 45 bambini per via della ripresa delle violenze nel Nord della Siria. Ed è sempre di questi giorni quanto riportato dall’agenzia NOVA circa l’esplosione di una mina che ha ucciso due operai impegnati nel ripristino della linea elettrica Al Mayadin – Al Bukamal, ed anche, come riferito dal quotidiano panarabo “Al Arabi al Jadid”, la notizia dello sciopero generale organizzato da attivisti locali nella provincia di Daraa per il blocco imposto dalle forze del governo siriano che da quasi 50 giorni impedisce i rifornimenti all’area di Tariq al Sadd e ai campi profughi.
E leggiamo anche di una nuova campagna di sicurezza contro le cellule residue dello Stato islamico nella provincia di Deir ez-Zor, nell’est della Siria.
Cosa sta accadendo in Siria?
“Le parole chiave della Siria di oggi sono: siccità, crisi economica e tentativo di normalizzazione – spiega Giovanni Visone, Direttore della Comunicazione e della raccolta fondi di INTERSOS, l’organizzazione non governativa italiana attualmente presente in 19 paesi del mondo fra cui, appunto, la Siria –. I combattimenti attivi si sono ridotti solo ad alcune aree nel nord ovest, ad est in alcune sacche di resistenza dell’Isis e nel sud, al confine con la Giordania, dove è entrata in crisi la tregua tra le forze governative e gli oppositori. Questo significa che nella gran parte del paese non ci sono combattimenti e che siamo in una fase essenzialmente post bellica”.
Questa fase però ha delle gravi criticità.
Ad inizio anno il Global Humanitarian Overview di OCHA (United Nation Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) ha riportato che circa 13 milioni di siriani sono nella condizione di avere bisogno di aiuti umanitari, un numero elevato che trova la sua giustificazione da un lato negli strascichi del conflitto e dall’altro dalla ricostruzione che procede con lentezza anche per mancanza di risorse. Infrastrutture, servizi, case: è quasi tutto da riscostruire, per non parlare delle strutture sanitarie che risultano largamente danneggiate.
“Purtroppo la grave crisi economica, se vuoi tipica della fase post bellica – continua Visone-, è peggiorata dalla crisi del Libano (lo scorso anno la devastante esplosione del porto di Beirut ha trascinato il Libano in una seria recessione ndr) e nei report internazionali si parla apertamente di “crisi del pane”: il prezzo del cibo è cresciuto del 230 per cento in un anno e il costo della vita di circa il 42 per cento, in questa situazione cresce l’insicurezza alimentare collegata all’accesso al cibo”.
È quanto riporta anche il sito The New Humanitarian, nell’inchiesta dedicata alla bread crisis pubblicata lo scorso 29 luglio.
Ad est della Siria, nella zona dell’Eufrate, il paese soffre di una straordinaria siccità che colpisce gravemente i raccolti e mette a rischio i circa 5 milioni di siriani che vivono di agricoltura e che porta con sé anche l’accesso ridotto all’acqua potabile.
Quanto alle code del conflitto (parliamo comunque di attacchi bellici a tutti gli effetti) a capire cosa stia accadendo nel Paese ci aiuta il sito Live Universal Awareness Map, il sito di informazione indipendente fondato nel 2014 da un team di sviluppatori di software e giornalisti che desideravano informare il mondo sul conflitto ucraino. Su richiesta dei lettori, ha poi rapidamente ampliato il suo raggio d’azione per coprire altre regioni tra cui anche la Siria.
“Sostanzialmente siamo in una nuova fase della crisi umanitaria, una fase appunto post bellica in cui però tornare alla normalità è complicato: la Siria ha subito un depauperamento delle risorse umane, inevitabile se consideriamo il numero delle vittime e il fatto che circa 6 milioni e mezzo di siriani sono fuggiti all’estero e altri 6 milioni abbiano dovuto lasciare le loro case seppur rimanendo nell’area”.
La diaspora del popolo siriano e il flusso di rientro
In questi 10 anni di conflitto circa 6 milioni di siriani si sono letteralmente sparsi nel mondo. Alcuni sono venuti in Europa, circa 800.000 si sono rifugiati in Giordania, un milione e mezzo sono in Libano e 2 milioni in Turchia, circa 250.00 sono rimasti bloccati nel nord della Grecia quando nel 2016 sono state chiuse le frontiere.
Poi ci sono i profughi interni, gli sfollati. Anche qui un fenomeno molto variegato. Accanto ai campi affollati della Giordania, esistono molti insediamenti informali tra cui anche piccoli campi tendati costruiti spontaneamente su terreni agricoli affittati in cambio di lavoro. Altri ancora hanno trovato una sistemazione in Libano in case semi finite.
“Occorre sempre tenere presente che la Siria era un Paese con una grande diversità di situazioni economiche e culturali, e poteva esserci molta differenza tra chi viveva nelle città e chi invece nelle campagne. Pertanto non ci deve stupire se molti profughi continuano in un certo senso quello che facevano prima: alcuni in Giordania sono pastori, altri in Libano hanno aperto delle piccole attività commerciali. Altri sono liberi professionisti, professori ed in alcuni casi sono riusciti a mettere in salvo, all’estero, i propri figli. I percorsi sono vastissimi. In 10 anni di conflitto molti si sono ricostruiti delle identità e il flusso di rientro è molto esiguo, a patto poi che – una volta rientrati – ritrovino ancora una casa da abitare”.
Intersos in Siria
In Siria Intersos è presente sia nei paesi limitrofi, fin dall’inizio dell’emergenza, che direttamente nel Paese dove è arrivata più recentemente. Le attività che svolge sono di protezione umanitaria e cioè attività di protezione dei minori, supporto psico sociale, supporto alle vittime di abusi in rifermento ance agli abusi di genere, attività di assistenza legale a cui si integra una parte di salute primaria. Ad esempio per contenere la diffusione del Covid sono state svolte attività di informazione e distribuzione di materiali di protezione e sono stati allestiti punti di triage per individuare rapidamente i casi di infezione.
“Tutto questo avviene con il forte coinvolgimento delle comunità. È indispensabile coinvolgere i loro leader per poter realizzare cambiamenti comportamentali volti alla prevenzione, oppure l’educazione informale e il reinserimento scolastico, come anche una parte di supporto di emergenza per la distribuzione di beni di prima necessità. Poi c’è un elemento di “life – views”, il supporto all’ottenimento dei mezzi di sussistenza, per aiutare a sviluppare una resilienza volta a ricostruire una dimensione autonoma per non dover disperdere per sempre dagli aiuti umanitari”.
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