L’appello del deserto. I Monaci della comunità di Mar Musa invitano tutti a fare un digiuno comune per la Siria ferita

Non è un caso che quest'appello venga proprio da quelle rocce bruciate dal sole, dove da secoli i monaci cercano Dio nel silenzio. Da quel monastero fondato nel 1992 da un gesuita italiano, Paolo Dall'Oglio, insieme al diacono siriano Jacques Mourad...

di Davide Romano

La guerra in Siria è come una di quelle malattie che i medici definiscono “croniche”: fanno meno notizia degli infarti, ma ti consumano lentamente fino a ridurre il corpo a un simulacro di se stesso. Ogni tanto qualcuno se ne ricorda, poi torna il silenzio. Ma nel deserto siriano, c’è chi non dimentica.

Da quelle rocce bruciate dal sole, dove da secoli i monaci cercano Dio nel silenzio, arriva ora un appello che dovrebbe scuotere le nostre coscienze assopite. Jihad Youssef, monaco e priore del monastero di Mar Musa al-Habashi, ha lanciato un invito tanto semplice quanto rivoluzionario: cristiani e musulmani digiunino insieme, preghino insieme per implorare la pace e la riconciliazione nella costa siriana e in tutto il paese.

Non è un caso che quest’appello venga proprio da lì. Quel monastero arroccato sulla collina che domina il deserto siriano rappresenta una delle esperienze più straordinarie di dialogo islamo-cristiano degli ultimi decenni. Lo fondò nel 1992 un gesuita italiano, Paolo Dall’Oglio, insieme al diacono siriano Jacques Mourad. La comunità che crearono si chiamava al-Khalil, “l’amico di Dio”, nome con cui sia la Bibbia che il Corano identificano Abramo.

Dall’Oglio, che si definiva “innamorato dell’Islam e credente in Gesù”, aveva sviluppato una spiritualità fondata sull’incontro e sul dialogo con l’islam. Mar Musa divenne rapidamente un luogo vivace, capace di riunire siriani di tutte le confessioni e giovani occidentali attratti dalla spiritualità del luogo e dalla personalità di “Paolo”.

Poi venne la guerra, e Mar Musa pagò un prezzo altissimo. Nel 2012, Dall’Oglio fu espulso dalle autorità per i suoi appelli a una soluzione pacifica del conflitto e a una transizione politica. L’anno dopo, nel luglio 2013, scomparve a Raqqa mentre tentava di negoziare il rilascio di ostaggi dello Stato Islamico. Anche padre Jacques Mourad fu rapito da Daesh nel 2015, ma riuscì miracolosamente a fuggire dopo mesi di prigionia. Oggi è arcivescovo cattolico di Homs, Hama e Nebek.

Nonostante tutto, un piccolo gruppo di monaci e monache è rimasto nel monastero, ormai silenzioso, dedicandosi all’assistenza della popolazione locale. Oggi, in quel monastero, tre monaci e una monaca continuano la loro missione.

L’appello di Jihad Youssef è preciso nei dettagli: “Per il digiuno, ognuno digiuni come ritiene più opportuno. Noi nel monastero digiuniamo con i nostri fratelli musulmani fino all’ora dell’Ifṭār al tramonto e rompiamo il digiuno con loro; alcuni di noi digiunano secondo la tradizione cristiana. L’importante è digiunare, non importa come”.

Per la preghiera, propone tre giorni, tre volte al giorno: “La prima e la seconda preghiera saranno in un orario a scelta personale; la terza sarà comune all’ora del tramonto, dopo il digiuno del Ramadan, affinché musulmani e cristiani possano recitarla insieme”.

La preghiera che suggerisce è un capolavoro di diplomazia spirituale, dove ogni parola sembra pesata come quelle rare gocce d’acqua nel deserto: “O Dio, Creatore del cielo e della terra, unico Filantropo, o Misericordioso, o Clementissimo, la Siria soffre e sanguina. La pietra del macinino che le gravava sul petto per decenni… si è spostata. Ma è ferita, le sue costole sono spezzate, respira a fatica”.

Chiede a Dio, “in questo mese benedetto del Ramadan e nel sacro tempo della Quaresima, di lenire gli animi e di liberarci dalla violenza e dal desiderio di vendetta”. Implora “perdono, misericordia e tenerezza” e domanda “pazienza e saggezza, umiltà e coraggio, per dire no alla vendetta e alla ritorsione”.

Con lucidità, il monaco afferma che “non c’è pace senza giustizia e non c’è pace senza perdono” e supplica Dio di liberare i siriani “dal giogo dell’odio e dello scontro settario” e di salvarli “dalle guerre e dalla distruzione”.

La preghiera si conclude con un appello alla fratellanza: “Concedici di comprendere che siamo fratelli e sorelle e che nessuno di noi può vivere bene da solo, affinché cerchiamo il bene dei nostri vicini e dei nostri figli allo stesso modo”. E con uno sguardo al futuro: “Ti supplichiamo di farci vedere negli occhi [dei bambini] il bene che verrà domani per tutti i siriani e le siriane, e che la Siria sia di tutti”.

Mentre i governi giocano al Risiko sulla pelle dei siriani, mentre l’Europa si preoccupa solo che i profughi restino lontani dalle sue coste, da quel monastero arroccato sul deserto arriva un invito che ci interpella tutti: mettersi alla prova del digiuno, sentire nel proprio corpo un po’ di quella fame che milioni di siriani conoscono fin troppo bene, e poi pregare insieme, musulmani e cristiani, per una riconciliazione basata sul riconoscimento della verità e sulla richiesta di perdono reciproco.

La storia ci dirà se questo appello avrà successo. Ma una cosa è certa: in un Paese dove per anni si è seminato odio, quei monaci continuano ostinatamente a seminare speranza. E questa, in una terra devastata come la Siria, è già di per sé una notizia.

Photocover: Paolo Dall’Oglio

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