Kurdistan, l’ultima frontiera dell’Occidente.
In queste ore è in corso una cruenta battaglia tra le bande armate del “Califfato nero” e l’esercito di uno Stato che non esiste. Il loro nome – secondo la traduzione più accreditata – significa “colui che si trova di fronte alla morte”, sono i peshmerga. Ultima barriera tra “noi” e “loro”, immersi in una distesa di sangue e sabbia. Tornano e “sbattono” fragorosamente con l’attualità le parole di Samuel P. Huntington: «La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologia né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro (1996)».
Ma i peshmerga, che l’Italia e il mondo stanno scoprendo in questi giorni, esistono da oltre un secolo. Un esercito senza confini da difendere dicevamo, maestro delle tecniche di guerriglia che si batte, da sempre, per la propria terra. Un’area che comprende territori iracheni, turchi, iraniani, siriani e armeni. Orgogliosi della loro appartenenza, questi guerriglieri sono conosciuti per le loro grandi capacità nel combattimento, e c’è chi fa risalire alla discendenza curda anche il “feroce” Saladino, la cui abilità in battaglia gli fece guadagnare il titolo di “principe dei Cavalieri” e il rispetto degli Europei.
Una delle caratteristiche più discusse, in Occidente, dei combattenti peshmerga è la presenza di un intero reggimento femminile, composto da quattro battaglioni e comandato da un colonnello donna di cui fanno parte oltre 500 tra soldatesse, sottoufficiali e ufficiali.
Oggi, in queste ore, le soldatesse peshmerga stanno combattendo le forze dell’Isis che, è bene che si sappia, conta una forza maggiore in quanto ad armi e munizioni. Secondo quanto dichiarato dalla Tenente Colonnello Lamiah Mohammed Qadir, una delle comandanti del reggimento, ad AlMonitor, sito di informazione sul Medio Oriente, le donne peshmerga sarebbero al momento impegnate in prima linea nelle città di Kirkuk, Daquq, Jalawla e Khanaqin. La loro esperienza militare si è infatti consolidata nel corso delle battaglie che hanno portato i peshmerga a schierarsi al fianco delle forze statunitensi per il rovesciamento del regime di Saddam Hussein nel 2003. Una veterana del battaglione, in un’intervista rilasciata al New York Post nei giorni scorsi, ha dichiarato di essere onorata “di far parte di un paese islamico moderno che permette alle donne di difendere la patria”.
Battaglia che ora vede le donne curde difendere non solo la loro terra ma anche quei diritti, conquistati e mantenuti con fatica, che lo Stato Islamico vorrebbe, nella migliore delle ipotesi, disconoscere loro. A tratti paradossale, la situazione odierna è questa: l’ultima la frontiera dell’Occidente difesa dall’esercito di uno Stato che non esiste in alcuna carta geografica. Basterà? Quanto potranno reggere i peshmerga contro la “follia” omicida del Califfato nero? Dubbi, domande senza risposta che si insinuano come tarli nelle menti degli strateghi occidentali.
Senza un obiettivo politico, comune, l’ultima frontiera rischierà di crollare.