La Marina Militare ricorda il settantatreesimo anniversario dell’impresa di Alessandria, episodio della seconda guerra mondiale che ha dato lustro all’Italia e agli uomini che la servirono.
Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 nel porto di Alessandria (Egitto) vennero affondate le corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth; una delle azioni più straordinarie, a danno della Royal Navy, della Regia Marina durante l’ultimo conflitto mondiale. Un’impresa straordinaria realizzata con un arma segreta: il siluro a lenta corsa (S.L.C.) più conosciuto come “maiale” e grazie al coraggio e l’audacia degli equipaggi che lo pilotavano.
Piccoli mezzi e “grandi” uomini che si addestrarono nel più assoluto segreto a Bocca di Serchio (Pisa). Una preparazione durissima: immersioni di notte, senza ausili luminosi, unica certezza: l’intesa perfetta con il proprio compagno d’equipaggio.
La notte del 18 dicembre, il sommergibile Scirè comandato dal tenente di vascello Valerio Borghese rilasciò a qualche miglia di distanza dal porto di Alessandria sei marinai a bordo di tre “maiali”. Gli obiettivi erano le corazzate inglesi Queen Elizabeth, Valiant e una grande petroliera.
Il capitano del genio navale Antonio Marceglia e il sottocapo palombaro Spartaco Schergat puntarono verso la Queen Elizabeth. Il capitano delle armi navali Vincenzo Martellotta e il capo palombaro Mario Marino verso la petroliera Sagona. Per il tenente di vascello Durand de la Penne e il capo palombaro Emilio Bianchi il bersaglio è la Valiant.
La mattina del 19 dicembre le cariche poste dagli assaltatori italiani esplodono sotto le carene delle navi nemiche. Le navi, subiscono danni ingenti e si adagiano sul fondale del porto.
Oggi, gli eredi di quegli uomini eccezionali sono gli incursori e palombari del Comando Subacquei e Incursori – COMSUBIN.
Se le azioni dei loro predecessori sono state rivolte contro il naviglio nemico in vari porti del Mediterraneo, oggi gli Incursori sono addestrati ed equipaggiati per affrontare missioni di diverso tipo, contro obiettivi navali e terrestri d’interesse marittimo.
SCHEDA STORICA
La Notte di Alessandria – Un’eccezionale operazione di squadra.
“II mezzo d’assalto è l’unico mezzo di guerra che chieda a se stesso la prodigiosa caratteristica di realizzare risultati decisivi senza mettere in lutto nessuna famiglia. Ciò lo pone in posizione di inequivocabile legittimità di fronte al diritto marittimo di guerra, ma soprattutto colloca gli operatori in posizione morale ineguagliabile”. Questa l’osservazione dell’ammiraglio Spigai, futuro capo di Stato maggiore della Marina, nel proprio celebre Cento uomini contro due flotte, il primo libro (uscito nel 1959) dedicato alle gesta degli incursori della Marina.
Le imprese dei mezzi d’assalto, impegnati durante la seconda guerra mondiale in operazioni che stupirono il mondo, sfidando il nemico fin nelle proprie basi più munite, sono probabilmente tra le più note azioni di guerra di tutti i tempi. Queste vicende sono spesso descritte privilegiando l’operato dei singoli, facendo spesso dimenticare i fattori di competenza, dedizione ed eccellenza tecnologica di cui l’incursione italiana è il prodotto finale e che sono espressione di tutta la Marina e, in ultima istanza, patrimonio comune dell’intera comunità nazionale.
Dopo un lungo periodo di apprendistato e di perfezionamento, l’impiego dei mezzi d’assalto tipo SLC (ovvero Siluro a Lenta Corsa, poi universalmente noti come “maiali”) consegue, infine, il 20 settembre 1941 il primo grosso successo in occasione di un attacco contro Gibilterra (affondamento della cisterna Fiona Shell, della motonave armata Durham e della cisterna militare Denbydale). Il livello di efficienza raggiunto dall’unità della Marina italiana dedicata alle operazioni speciali – la 10ª Flottiglia MAS – è ormai soddisfacente sotto ogni aspetto: funzionalità dei mezzi avvicinatori, addestramento del personale, affidabilità del materiale, scelta dei tempi e delle modalità. I due mesi seguiti all’azione di Gibilterra sono impiegati, a questo punto, per rinforzare il reparto subacqueo e per pianificare il successivo, letale colpo contro la base navale britannica di Alessandria.
Un’attenta opera di studio delle difese avversarie era stata preparata sin dall’estate del 1941, avvalendosi con intelligenza e fantasia sia delle decrittazioni dei messaggi radio avversari sia delle catture di documenti e mappe inglesi ottenuti nelle forme più diverse. Uno dei casi più eclatanti fu senz’altro l’avventuroso recupero dal fondo del mare della documentazione segreta custodita a bordo del relitto del cacciatorpediniere britannico Mohawk, silurato e affondato dal caccia italiano Tarigo. Nel novembre 1941 le informazioni sul porto e sulle difese (sbarramenti minati, ostruzioni retali e sistemi di vigilanza) sono tali da consentire una soddisfacente conoscenza della situazione; gli operatori, nel pieno del loro addestramento, si esercitano a compiere tragitti analoghi a quelli che avrebbero dovuto percorrere ad Alessandria, riproducendo negli allenamenti notturni le reali condizioni del porto nemico e allenandosi a dosare le forze in base alla lunghezza e alle difficoltà del percorso.
Il conto alla rovescia ha inizio il 3 dicembre 1941, con l’imbarco degli SLC sul sommergibile Sciré, operazione realizzata di notte e in rada alla Spezia da parte degli stessi operatori, i quali sistemano i “maiali” nei cilindri contenitori per trasferirsi poi direttamente in aereo, secondo una prassi già adottata per Gibilterra, al punto di partenza per l’azione. Gli operatori designati vengono ripartiti in tre coppie: il tenente di vascello Luigi Durand de la Penne con il capo palombaro Emilio Bianchi; il capitano del genio navale Antonio Marceglia con il sottocapo palombaro Spartaco Schergat; il capitano delle armi navali Vincenzo Martellotta con il capo palombaro Mario Marino.
Il capo gruppo Durand de la Penne è un veterano: ha già preso parte a un’operazione contro Gibilterra nel 1940, venendo decorato di medaglia d’argento al valore militare, avendo ottenuto in precedenza la promozione per merito di guerra grazie all’epica impresa di salvataggio dei superstiti del sommergibile Iride. Anche Marceglia è alla sua terza azione, essendo stato operatore in due precedenti incursioni contro Malta e Gibilterra.
Lo Sciré parte dalla Spezia alle 23:00 del 3 dicembre 1941, diretto alla base italiana di Lero, nel Dodecaneso, dove arriva la sera del nove. Durante il tragitto, avvistato da un aereo britannico, sfugge all’identificazione salutando allegramente il velivolo avversario, salvo trasmettere prontamente con il proiettore il corretto segnale di riconoscimento inglese del giorno, ovviamente ottenuto grazie all’opera del Servizio informazioni segrete della Marina, come scopriranno con raccapriccio gli investigatori britannici il mese successivo dopo aver esaminato tutti i rapporti dei ricognitori del novembre-dicembre 1941.
Alle 07:00 del quattordici, imbarcati gli operatori, il battello lascia gli ormeggi e inizia la navigazione occulta verso Alessandria, emergendo solo di notte per ricaricare le batterie e verificare la rotta. La sera del 17 dicembre 1941, arriva la conferma della presenza in porto di due navi da battaglia da parte del comando centrale della Marina – DA SUPERMARINA: accertata presenza in porto due navi da battaglia. Probabile portaerei: ATTACCATE – e, caricate al massimo aria ed energia elettrica, lo Scirè inizia la sua incredibile corsa sottomarina attraverso gli sbarramenti minati, sempre al di sotto dei 60 metri di profondità e su fondali rapidamente decrescenti, per emergere, infine, in posizione perfetta a 1.3 miglia nautiche per 356° dal fanale di Alessandria.
Assegnati i bersagli, escono per primi gli operatori di riserva (i quali dovranno richiudere i portelli dei cilindri dopo l’uscita dei “maiali”) e poi tutti gli altri. I sei uomini del gruppo d’assalto, a cavalcioni dei loro mezzi, procedono in superficie verso il porto e, dopo tre ore, si avvicinano alle ostruzioni. Nei pressi incrociano le motovedette di vigilanza, i cui equipaggi lanciano, a intervalli, cariche anti-uomo. Con felice sorpresa di tutti, le ostruzioni vengono aperte, proprio in quel momento, per far entrare alcuni cacciatorpediniere che rientrano in porto: rischiando grosso, i mezzi d’assalto entrano anche loro. A questo punto, come da piani, proseguono in modo indipendente.
Il tenente di vascello de la Penne individua ben presto il proprio bersaglio, la nave da battaglia Valiant; alle 02:19 è a meno di 20 m da essa quando il suo SLC va in avaria e affonda a 13 m di profondità; de la Penne cerca di spostare l’apparecchio lungo il fondo melmoso e raggiunta, infine, la superficie si ricongiunge con il secondo operatore Bianchi, vittima di un avvelenamento da ossigeno, ma i due sono subito scoperti, catturati e tratti a bordo, sfilano, gocciolanti, tra due ali formate da marinai inglesi che ridono loro in faccia additandoli l’uno all’altro. Tutti danno per scontato che i due italiani abbiano fallito la propria missione. Perquisiti e interrogati, inutilmente, da inquisitori palesemente poco interessati, sono poi rinchiusi separatamente in locali sottocoperta, allo scopo piuttosto trasparente di spingerli a parlare, qualora la nave fosse stata davvero minata. Alle 05:45 l’ufficiale italiano, al fine di evitare inutili perdite umane tra l’equipaggio della nave nemica, (come già Rossetti e Paolucci a Pola, il 1° novembre 1918, dopo aver minato la nave da battaglia Viribus Unitis) chiede di parlare con il comandante della Valiant e lo informa dell’imminente esplosione, puntualmente verificatasi alle 06:06 è così descritta da Bianchi: “…apocalittica come il tuono di un vulcano, seguita da una vibrazione intensa, sismica, di pochi attimi. Poi un cupo silenzio interrotto a breve da voci concitate e dal tramestio del personale di bordo”.
Dalla coperta del Valiant, prima di essere condotti a terra e in prigionia, de la Penne assiste, alle 06:15, all’esplosione della carica collocata da Marceglia e Schergat sotto la Queen Elizabeth; la descrizione è singolarmente sintetica ed efficace: “mi metto a guardare la corazzata Queen Elizabeth che è a circa 500 m dalla nostra poppa. L’equipaggio della Queen Elizabeth è sulla prua. Passano pochi secondi e anche la Queen Elizabeth salta. Si solleva dall’acqua per qualche centimetro e dal fumaiolo escono pezzi di ferro, altri oggetti e nafta che arriva in coperta da noi e sporca tutti quanti sono a poppa”.
Quest’attacco è stato condotto, in effetti, secondo modalità da manuale. Anche Marceglia è entrato in porto seguendo i cacciatorpediniere nemici e ha avvistato ben presto il proprio bersaglio, la corazzata Queen Elizabeth. Superate le ostruzioni poste intorno alla nave e indossata la maschera dell’autorespiratore, Marceglia e Schergat s’immergono e assicurano, secondo una tecnica a lungo studiata e applicata, la carica sotto la chiglia della nave, sospendendola alle alette di rollio. I due, spolettata anche una serie di bombe incendiarie destinate, nelle intenzioni, a incendiare la nafta fuoriuscita dai serbatoi delle navi colpite, nuotano poi verso una problematica salvezza. Ingannate le sentinelle del porto facendosi passare per marinai francesi, si avviano a piedi per le vie di Alessandria. Il loro progetto di raggiungere il sommergibile Zaffiro, che li aspetta al largo di Rosetta per tre notti di fila, naufraga, infine, quando Marceglia e Schergat, giunti ormai in quella località, sono scoperti dalla polizia egiziana.
Anche Martellotta e Marino sono entrati nel porto di Alessandria al seguito delle navi nemiche alla ricerca di un bersaglio pagante – una portaerei o grossa petroliera – da affondare. Avvistata una nave da guerra, ritenuta una terza corazzata, e pertanto ben distinta da quelle riservate alle altre coppie, procedono per attaccarla, benché ciò non fosse previsto dall’ordine di operazione. Rendendosi successivamente conto che quel bersaglio era “soltanto” un incrociatore (HMS Carlisle), in applicazione agli ordini ricevuti, Martellotta lo abbandona e dirige per attaccare una petroliera. Si tratta di un comportamento che riveste un profondo e particolare significato etico, considerata la disciplinata rinuncia a un prestigioso, e più facile, successo personale. Martellotta è assalito poco dopo, come Bianchi, da violenti conati di vomito, sintomo sicuro di avvelenamento da ossigeno e naviga, pertanto, in superficie; l’operazione di collocamento della carica è ultimata da Marino alle 02.53. A fianco della cisterna è ormeggiato un grosso cacciatorpediniere. Se resta laggiù ancora per tre ore, si sussurrano i due, è fregato pure lui… Sistemate quattro piccole bombe incendiarie a circa 100 m dalla petroliera, la coppia di operatori affonda il proprio SLC con l’autodistruzione avviata e raggiunge a nuoto una banchina; tolte le tute, affondate anch’esse con i respiratori, cercano di uscire dal porto, ma vengono catturati poco dopo dalla vigilanza interna.
Alle 05.54 si ode una forte esplosione; la petroliera Sagona e il cacciatorpediniere Jervis, sono entrambi gravemente danneggiati. La cisterna ha una falla a poppa, e timone ed eliche fuori uso; il caccia rimarrà a sua volta in bacino per un mese.
Quanto alle corazzate, i danni risultano molto più gravi: la Valiant tornerà in efficienza soltanto nel maggio del 1943 mentre la Queen Elizabeth, riprenderà il servizio di squadra soltanto nel 1944, nell’Oceano Indiano. Entrambe furono disarmate nel 1945, prima del termine della guerra, poiché giudicate ormai obsolete e, comunque, menomate.
Sei uomini hanno avuto così ragione di una delle basi più importanti della Marina avversaria, cosa che induce lo stesso primo ministro inglese Winston Churchill a scrivere: “nel corso di alcune settimane l’intera flotta da battaglia nel Mediterraneo orientale è stata eliminata come forza combattente”.
Per raggiungere questo risultato strategico, però, gli incursori hanno operato avendo alle spalle l’intera Marina, una forza i cui ufficiali, sottufficiali e marinai, senza distinzione di grado, corpo o specialità, supportati da tecnici e operai civili, hanno lavorato per anni con impegno appassionato per preparare mezzi sempre più affidabili e per addestrarsi al loro impiego con la massima sicurezza. Molte azioni, inoltre, hanno potuto essere realizzate soltanto grazie agli eccezionali risultati, rimasti celati per decenni, ottenuti dagli “uomini ombra” del reparto Informazioni dello Stato maggiore della Marina.
È inoltre evidente che gli straordinari sforzi dei mezzi d’assalto sarebbero serviti a ben poco se non fossero stati inquadrati in una strategia finalizzata a garantire l’esercizio del potere marittimo. I primi risultati dell’impresa di Alessandria appaiono evidenti sin dai giorni e mesi immediatamente successivi a quella notte: la Marina riesce, infatti, a mettere a segno una lunga serie di efficaci azioni offensive che portano alle operazioni della squadra navale del febbraio, marzo, giugno e agosto 1942 contro i convogli britannici diretti a Malta. E proprio nell’azione di maggior successo, passata alla storia come battaglia di Mezzo Giugno, la formazione navale inglese che parte da Alessandria (operazione Vigorous) per arrivare a Malta, è costretta a tornare indietro perché non ha nulla da opporre alla tempestiva uscita in mare delle navi da battaglia italiane salpate da Taranto.