È passata più di una settimana da quando è stato emanato il codice di condotta per le ONG e possono essere già messe in evidenza alcune criticità di non poco conto. Finora sono state 4 (su 8) le ONG che hanno aderito a questo codice, promosso dal Ministro degli Interni Marco Minniti. Ieri mattina, infatti, si è aggiunta a Save The Children, Moas e Sea-eye, anche la ONG spagnola Proactiva, una delle organizzazioni che in principio si era schierata contro la firma del nuovo documento sulla condotta da tenere per salvare i migranti nel Mediterraneo. La firma è arrivata senza troppe difficoltà. Racconta infatti il direttore di Proactiva, Maurizio Gatti, che “è stato un incontro veloce e senza problemi. Siamo arrivati a Roma in mattinata e alle 12 eravamo già sull’aereo di ritorno”. Ciò che più desta perplessità è il modo in cui si è giunti all’accordo sul codice di condotta, soprattutto per le crescenti difficoltà a cui è andata incontro l’ONG in questi ultimi giorni. La mancata accettazione dell’accordo ha infatti esposto Proactiva all’indifferenza, o meglio all’opposizione delle parti in causa rispetto alla sua attività di ricerca e salvataggio. Infatti nel pomeriggio di martedì, una delle navi della ONG, la Golfo Azzurro, si è vista negare inspiegabilmente prima da Malta e poi dall’Italia, il permesso di ingresso nelle proprie
acque territoriali, probabilmente per la presenza a bordo di tre migranti libici salvati poco prima. Quello che risulta difficile da capire è il motivo del diniego, poiché l’operazione di salvataggio è stata condotta sotto il coordinamento del Centro di Comando della Guardia Costiera italiana. “Stanno facendo problemi di ogni tipo anche solo per far sbarcare gli equipaggi” rincara la dose il Direttore Maurizio Gatti, “evidentemente ci troviamo al posto sbagliato nel momento sbagliato, mentre è in atto un braccio di ferro politico”. A ciò si aggiunga lo spiacevole episodio che ha visto come protagonista l’altra nave di Proactiva presente nel Mediterraneo, la Open Arms, il cui equipaggio ha vissuto momenti di forte tensione sotto il fuoco delle navi libiche, domenica scorsa. La Libia ha confermato l’episodio sostenendo la collusione della ONG con i trafficanti. Ormai la retorica italiana concernente questa pratica, avvenuta (forse) in singoli casi ed assolutamente non generalizzabile, ha preso piede anche nel principale paese di origine dei flussi migratori, fornendo un’ottima scusa per non accettare migranti indietro e dispensarsi dagli obblighi di cooperazione e soccorso. La situazione di stallo non potrebbe essere più chiara. Questo braccio di ferro tra UE, Italia e Libia sta facendo precipitare la situazione, colpendo in primis gli attori che più di tutti intervengono per salvare vite in un mare che conta sempre più morti. Intanto il Governo italiano, nella figura del Primo Ministro Paolo Gentiloni, guarda con estrema positività all’attuazione del codice di condotta. “I flussi si stanno gradualmente riducendo, vince lo Stato e perdono gli scafisti” ha dichiarato ieri il premier, nonostante alcuni suoi ministri non la vedano allo stesso modo. Tra loro, Graziano Del Rio, a cui compete la gestione della Guardia Costiera, ha espresso una forte criticità del sistema: “Se c’è una nave di una ONG vicina a gente da soccorrere, non posso escluderla”, anche “se non ha firmato il codice”. Ma secondo Gentiloni “il codice dei migranti è un pezzo fondamentale di una strategia d’insieme che sta producendo piano piano risultati, uno spiraglio”, quindi sarà bene dargli attuazione ed aspettarne i frutti. Per quanto possano esservi buoni propositi alla base del regolamento in questione, l’idea che attualmente sta prendendo piede è che esso stia portando soprattutto al risultato di screditare le ONG e limitarne le operazioni di ricerca e soccorso, ponendo su di loro problemi che competerebbero, in teoria, a Stati e organizzazioni internazionali. Si sta assistendo a un continuo “scarica barile” tra governi, UE e Nazioni Unite, in cui la sensazione è che le ONG siano sempre i primi responsabili dei disagi che avvengono nel Mediterraneo, un ostacolo al raggiungimento di una soluzione di cui però nessuno vuole accollarsene concretamente il peso. Cosa ancor più grave è che la Libia è vista come il paese che più di tutti può risolvere il problema nel modo migliore, paradosso indescrivibile data l’instabilità del governo di Tripoli e le continue violazioni dei diritti umani nel paese riportate dagli organismi internazionali. La “speranza” è che questo momento di incomprensioni sia dovuto al continuo perseverare di condizioni climatiche ostili, e che, una volta “raffreddati” gli animi, gli attori in gioco comincino a prendere sul serio la situazione e cooperino sinergicamente per garantire il bene delle persone coinvolte