Lampedusa – Quattro anni fa, il 3 ottobre 2013, un barcone di 20 metri con a bordo circa 530 migranti affondava nei pressi di Lampedusa. Dopo il deserto, gli atti di violenza, le torture subite, il lungo viaggio in mare e finalmente l’Italia e l’Europa, erano a un passo dal sogno di una vita migliore. Ma la nave non poteva reggere il peso di tutti quei sogni di libertà e a seguito di un incendio si è inabissata, portandosi dietro con se le vite di 368 persone. Lampedusa, isola di passaggio ed esempio di accoglienza per tutta l’Europa, ricorda questa strage tra le lacrime dei familiari e le testimonianze dei superstiti e di chi ha vissuto quei momenti. In molti hanno risposto alla chiamata e sono tornati su quell’isola di confine per la c.d. giornata della memoria e dell’accoglienza. Sono state ricordate tutte le vittime del nostro Mar Mediterraneo. La partecipazione è stata variegata con studenti, rappresentanti istituzionali, attivisti e migranti uniti nel dolore e nel ricordo che hanno sfilato in corteo per la città. Padre MussieZerai, famoso attivista nelle azioni di salvataggio dei migranti, ha sottolineato l’importanza dei “canali sicuri di ingresso” per evitare queste tragedie. Un pensiero decisamente impopolare che stride con le attuali politiche europee e spaventa quella fetta di popolazione xenofoba che vede solo il “nero”(rectius, il male) nei migranti e preferisce non prendere in considerazione queste ipotesi di apertura al diverso.
Ma una seria riflessione sull’ecatombe che si sta consumando nel Mediterraneo è ad oggi obiettivamente necessaria,sia per l’impressionante numero di morti (in media se ne stima uno ogni 50 che tenta di raggiungere l’Europa), e soprattutto perché una giornata della memoria non può limitarsi a parole di cordoglio e a lacrime, ma deve accendere dialoghi e riflessioni che affrontino direttamente questo problema.In primis dal punto di vista della politica italiana. Infatti, senza accollare al nostro Paese tutto il fardello di ciò che è avvenuto (la Guardia Costiera Italiana ha sempre avuto un ruolo fondamentale nell’emergenza naufragi), non si possono neanche escludere o cancellare le nostre responsabilità, soprattutto nel recente periodo. Il pensiero si volge ovviamente all’accordo del governo italiano con la Libia e al naufragio di pochi giorni fa al largo delle coste nord africane in cui hanno perso la vita oltre 100 migranti. La sensazione è che ci si stia muovendo su un terreno scosceso di relativizzazione dei diritti umani delle persone migranti, in cui le questioni politiche stanno prendendo il sopravvento. Il Ministro degli interni Minniti, durante il convegno de “Il Fatto Quotidiano” del 3 settembre scorso, ha detto di giocarsi la faccia e la carriera sui diritti umani dei migranti nei centri di accoglienza in Libia e ha dichiarato con fervore la forte diminuzione dei flussi in entrata in Italia grazie al suddetto accordo. Ebbene, sorvolando sull’attuale concetto di accoglienza in Libia (di cui si hanno risultanze solo grazie all’intervento di ONG come Medici Senza Frontiere in alcuni campi), non ci si può esimere o deresponsabilizzare dal disastro avvenuto nelle acque libiche. Anche l’Italia ha la sua fetta di responsabilità in questa strage, forse più che negli altri naufragi avvenuti nel Mediterraneo e questo deve essere riconosciuto e interiorizzato. Non ci si può lavare le mani da questa strage per un semplice fatto geografico enon si possono difendere (o dire di difendere) solo alcuni dei diritti umani dei migranti. I diritti umani sono per definizione indivisibili e universali e non li si puòcircoscrivere solo a determinate zone territoriali di un certo paese (l’Italia è stata più volte sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per non averne considerato l’extraterritorialità), né di certo “barattarne” la tutela dietro un compenso economico. È necessario comprendere a fondo questo postulato per poter continuare ad agire nel modo corretto ed esemplare che ha contraddistinto il nostro paese negli ultimi anni nella questione migratoria. Ridare valore al diritto alla vita significa non limitarsi all’unione solamente nel momento del ricordo delle catastrofi, ma evitare di dividersi nel quotidiano quando si potrebbe evitare che esse si presentino. E uno dei modi per attuare questo principio è, come già detto da Padre MussieZerai (detto anche “Mosè”, e in questo caso il soprannome non poteva che essere più azzeccato!), creare canali sicuri di ingresso: una pratica impegnativa che comporta rischi ed è tanto distante dai pensieri dell’Europa di oggi, ma che offre l’opportunità all’Italia di dare (una volta tanto) il “buon” esempio.