“riprendiamo questo testo dal sito www.micromega.net” ©Paolo Flores d’Arcais.
di Paolo Flores d’Arcais
Ha vinto Salvini, che
umilia Berlusconi con oltre 3 punti di vantaggio. Ancora di più ha vinto
Di Maio e il Movimento 5 stelle. Che ha il diritto di governare, e
soprattutto non può ora sottrarsi al dovere di governare.
I numeri azzardano
solo due possibilità: una maggioranza di governo con la Lega e una
maggioranza che inglobi quanto resta di Pd e LeU. L’alleanza con la Lega
sembra la via più facile, propiziata anche da corrispondenze di amorosi
sensi sia programmatiche che umorali. Per il Movimento 5 stelle sarebbe
però investire la vittoria in titoli tossici e preparare l’harakiri.
Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la coerenza con cui
vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri espiatori, spurghi
emotivi del cittadino malpensante, anche razzista, ma con rosario e
crocefisso.
La moneta cattiva,
come diceva il banchiere Thomas Gresham oltre mezzo millennio fa,
scaccia quella buona, ma in politica anche quella così così. Il
lepenismo sfrontato di Salvini metterebbe nell’angolo gli alleati cinque
stelle con i loro ammiccamenti titubanti verso sovranismi e basta
tasse. Di Maio premier dovrebbe subire Salvini come vicepresidente del
governo e un terzo di ministri leghisti, capaci di oscurarlo con
overdosi di demagogia.
A prima vista l’alleanza con Pd e LeU sarebbe per il M5S ancora più difficile. Renzi ha un gruppo parlamentare suo e
catafratto, le finte dimissioni indicano che vuole lo stallo/sfascio
per andare alla rivincita elettorale. Un vice premier e alcuni ministri
Pd (con uno strapuntino per Grasso o D’Alema) risulterebbero
indigeribili. L’unica possibilità per Di Maio resta perciò sarebbe la mossa del cavallo: una scelta inaspettata, spiazzante, al limite del temerario.
Proporre al capo dello
Stato un governo con gli elementi portanti del programma dei cinque
stelle, che per trovare in parlamento i voti per il 51% sia affidato a
una personalità fuori dei partiti, che scelga ministri tutti della
società civile. Per i deputati Pd, anche se renziani, sarebbe difficile
dire no a una proposta che il Presidente Mattarella presentasse con
intensa e inesausta moral suasion come la soluzione migliore per l’interesse generale (in effetti lo sarebbe).
Mossa temeraria,
perché per i dirigenti 5 stelle vorrebbe dire comportarsi per la prima
volta da statisti, rinunciando al narcisismo identitario (e anche
personale) pur di realizzare contenuti importanti del loro programma.
Lasciando sconcertata fino all’ostilità la base e probabilmente anche
“Beppe”. Convincerli sarebbe la prova del fuoco per conquistare
un’autorevolezza politica non effimera e con futuro.
Quali aspetti del
programma? Quelli, radicalissimi, che picconino l’hybris di
diseguaglianze, taglino artigli alle prepotenze finanziarie e
marchionnesche, straccino i ponti sugli stretti, concentrino le risorse
su ricerca scientifica e cultura, sistema idrogeologico e paesaggio
(contro la speculazione edilizia, ovviamente), e non più dichiarino ma realizzino guerra permanente ai grandi evasori recuperando pacchi di miliardi, e senza quartiere la facciano a mafie e corruzione.
I nomi di governo non
si devono fare, sostiene chi vuole la politica come “arcana imperii”, e
invece sono il banco di prova di un voltar pagina nella trasparenza. Su
MicroMega li abbiamo sempre fatti, nella mia generazione di terza età
Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, in quella successiva Tomaso
Montanari (del resto a Davigo e Montanari Di Maio si è già rivolto).
Diranno sempre di no, fino a che la prospettiva di un governo di svolta
egualitaria e civile non venga proposta con convinzione, e non come
ripiego, dai cinque stelle.
L’alternativa sono
nuove elezioni a breve. Ma è ragionevole tornare alle urne senza una
nuova legge elettorale (su cui l’accordo è improbo) mentre ovviamente la
speculazione finanziaria non resisterà a focalizzarsi sull’Italia
anello debole? E come reagirebbero gli elettori se dovessero votare
proprio in tale temperie?
L’establishment sembra
ormai cieco di fronte a quanto è da tempo ovvio (si leggano le annate
di MicroMega), in Europa, anzi in Occidente, e in modo particolarissimo
in Italia, ci sono solo due politiche possibili, entrambe radicali: per
l’eguaglianza o per la barbarie dei capri espiatori. Un po’ di
ragionevolezza sarebbe sperabile nel “potere d’opinione”, che
dell’establishment non dovrebbe essere parte (il giornalismo “persegue
una missione estremamente utile, estremamente grave e faticosa, quella
d’una censura continua sugli atti del potere” diceva il grande Jules
Michelet centosessant’anni fa).
L’obbrobrio di
diseguaglianze sfrenate (Valletta guadagnava cinquanta volte un operaio,
Marchionne mille, e c’è di peggio) per fortuna non viene sopportato più
da ondate tumultuose di cittadini, sempre più decisi ad aggredirlo. La
protesta può assumere la bandiera del razzismo, dell’intolleranza, dello
sgangherato plebeismo, oppure delle misure egualitarie, che per gli happy few risulteranno
evidentemente dolorose. Storicamente la borghesia ha sempre scelto la
prima strada, sacrificare le libertà pur di impinguare i profitti.
Eguaglianza o barbarie, oggi nessun tertium è
dato. I pannicelli caldi che il pensiero “ragionevole” o di “buon
senso” degli Scalfari o dei Severgnini ha continuato (e temo continuerà)
a propinarci, non sono nemmeno callifugo contro un’epidemia, ormai sono
l’Lsd che spinge a credere di poter volare e, posseduti dalle proprie
visioni psichedeliche, a convincere tutti gli altri perché si buttino
dalla finestra.
(6 marzo 2018)