Nel trentesimo anniversario della sua uccisione il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha ricordato con queste parole: “Ricordare la vile uccisione di Rosario Livatino richiama la necessità di resistere alle intimidazioni della mafia opponendosi a logiche compromissorie e all’indifferenza, che minano le fondamenta dello stato di diritto”. Fu tra i primi a portare alla luce lo stretto legame tra mafia e affari, “concentrando l’attenzione sui collegamenti della malavita organizzata con gruppi imprenditoriali”, prosegue Mattarella.
Sostituto Procuratore della Repubblica e poi Giudice della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Agrigento, Livatino ha condotto importanti indagini contabili e bancarie sulle organizzazioni criminali operanti sul territorio e sui loro interessi economici, fu consapevole del delicato ruolo del giudice in una società in evoluzione e della necessità che la magistratura sia e si mostri indipendente, svolse la sua attività con sobrietà, rigore morale, fermezza e instancabile impegno, convinto di rappresentare lo Stato nella speciale funzione di applicazione della legge.
Venne ucciso il 21 settembre 1990, dalla Stidda, un’associazione criminale di stampo mafioso, rivale di Cosa Nostra, che operava nei territori di Gela, Agrigento e Caltanissetta, con ramificazione nel ragusano sino a Catania.
Venne raggiunto dai suoi killer sulla SS 640 mentre si recava a bordo della sua Ford Fiesta color amaranto, senza scorta, al tribunale. Venne speronato dall’auto dei sicari e ferito con un primo colpo. Tentò la fuga per i campi, ma venne raggiunto dopo una decina di metri dai mafiosi che lo freddarono con un colpo di pistola. Chiamato il “giudice ragazzino”, indagava su quella che venne poi definita la tangentopoli siciliana. Definito da Giovanni Paolo II un “martire della giustizia e indirettamente della fede”, venne considerato dalla Chiesa Cattolica, servo di Dio e in seguito è stato istituito un processo di beatificazione, ancora in corso.
Sulla statale 640, quella mattina morimmo in due: il povero giudice Rosario Livatino, e Pietro Ivano Nava che denuncio l’accaduto. Da allora vive con un’altra identità, ha cambiato lavoro e si è ricostruito da zero una nuova esistenza. “Certo che lo rifarei. È l’educazione che mi hanno dato i miei genitori. Non c’era un’altra scelta. Pensa che mi sarei potuto svegliare il giorno dopo in albergo, farmi la barba, andare a fare colazione, leggere della morte del giudice e far finta di nulla? Se avessi taciuto non sarei più stato un uomo libero, non mi sarei più potuto guardare allo specchio”, e quello che continua a ripetere Nava.
Pietro Ivano Nava si espose in prima persona prima ancora che ci fosse uno specifico programma di protezione: ha contributo in modo determinante – con la Commissione antimafia presieduta allora da Rosy Bindi – alla riformulazione, nel 2018, della nuova legge sui testimoni di giustizia. Nessun eroe, nessun super potere, “solo” l’attenzione e la dedizione al bene comune. L’importante è non dimenticare, non lasciarsi scoraggiare dal male, e rimanere fermi sull’idea che il bene ha più forza!