Iniziamo cercando di capire cosa sia il MES, ovvero Il Meccanismo Europeo di Stabilità è un’organizzazione internazionale a carattere interregionale formata da quei Paesi che condividono l’euro come moneta, e ha il compito di coadiuvare gli Stati che si trovano in difficoltà economica. In breve, si tratta di mettere in comune il denaro di tutti e utilizzarlo nel caso in cui un membro sia costretto a fare i conti con una crisi economica.
Il MES opera grazie a un Consiglio dei governatori, uno di amministrazione e un direttore generale. Le decisioni relative all’assistenza finanziaria vengono adottate dal primo all’unanimità, anche se, per quelle più impellenti, è previsto un voto a maggioranza qualificata dell’85% del capitale. Il numero degli aventi diritto al voto di ogni singolo Stato è pari alla quantità di capitale versato nel fondo. La Germania è il Paese che contribuisce maggiormente con una quota del 27%, seguito da Francia con il 20% e Italia con il 17%.
Al momento il MES dispone di 80 miliardi di euro di capitale versato e di 700 miliardi di capitale sottoscritto. Per finanziarsi, però, il fondo emette anche titoli garantiti dagli Stati che lo compongono. Qualora uno Stato esprima la volontà di ricevere un aiuto economico, il MES prevede che questo rispetti delle condizioni preliminari. Si tratta della c.d. Troika, composta dai membri della Commissione europea, della BCE e del Fondo monetario internazionale. Essa rappresenta i creditori che, come tali, indicano allo Stato-debitore le riforme da adottare. Un esempio di questo meccanismo, reputato troppo intransigente, lo ha sperimentato la Grecia qualche anno fa; la vicenda, per l’attenzione mediatica ricevuta, pose una sorta di stigma sul MES, sulla Germania e sull’Unione Europea.
La riforma del MES, in corso di discussione da almeno due anni, prevede due cambiamenti sostanziali: un fondo di risoluzione unico per aiutare le banche e l’obbligo per un Paese che si rivolge al MES di emettere titoli di Stato che permettano ai creditori di ristrutturare il debito tramite un solo voto, invece di ricorrere a delle procedure più complesse previste per altri titoli di Stato. Il fondo avrebbe l’obiettivo di aiutare le banche europee più in difficoltà ed è finanziato da tutti gli istituti di credito continentali, con una disponibilità di 55 miliardi di euro. Mentre il secondo cambiamento darebbe la possibilità a un paese in difficoltà di restituire meno di quanto deve ai suoi creditori. Una cosa positiva, se non fosse che i creditori, sapendo di questa possibilità potrebbero finire per chiedere tassi di interesse più alti ai Paesi ad alto rischio.
Nonostante l’esito della risoluzione di maggioranza, il voto ha portato alla luce le tante questioni irrisolte che la pandemia aveva congelato. Dai numeri risicati al Senato, al timore di andare sotto in alcune importanti votazioni, passando per le defezioni e gli scontri interni del governo. L’affondo di Matteo Renzi, questa volta, sembra molto serio e una crisi di governo non è più così lontana, dato che il senatore ha minacciato di ritirare i suoi ministri.
D’altro canto, l’impressione è che la discussione sulla riforma del MES non c’entri nulla. Sono ben altri i motivi che hanno mosso Renzi. In particolare, vorrebbe ridiscutere la governance del Next Generation Eu, dato che ha parlato solo di quello, criticando le modalità di intervento del Presidente che escluderebbero l’intervento della politica e favorirebbero quello dei tecnici. Non è chiaro se ci sia anche altro, visto che il leader di Italia Viva in alcune interviste ha anche affermato che un’eventuale crisi di governo non comporterà necessariamente il ritorno al voto: «Il presidente della Repubblica deve verificare se ci sono i numeri in Parlamento». Inoltre, è davvero inusuale che un capo politico così esperto minacci così platealmente la crisi proprio in prossimità di un Consiglio Europeo così importante: così facendo rischia di indebolire la posizione europea di Giuseppe Conte. A queste indicazioni si aggiungono anche le dichiarazioni di Salvini, il quale si dice intenzionato a fare “un governo serio” prima di andare al voto. Se i propositi del centrodestra sono ormai chiari a tutti, resta da comprendere quanto le intimidazioni del senatore fiorentino siano serie e non finalizzate solamente ad “alzare la posta” e spingere per un accordo.
Anche se non è la prima volta che si deve ricorrere a una mediazione, il rischio è che i malumori prima o poi finiscano per allargarsi anche al Partito Democratico, il cui leader ha preferito tenersi lontano dalle polemiche. Gli interventi di Graziano Delrio e di altri esponenti di spicco del partito, però, hanno sottolineato come persista una divergenza d’opinione tra base e vertice. Molto probabilmente la mediazione riuscirà, ma appare chiaro che la luna di miele per il governo sia finita e che i numeri siano tornati a contare.
La pandemia ha nascosto per nove mesi ciò che fino a febbraio scorso appariva chiaro a tutti: il governo Conte bis non è un esecutivo che gode di una maggioranza schiacciante, soprattutto al Senato, e che si regge sulla capacità dell’avvocato pugliese di riuscire a mediare tra le parti. La coesione, però, è un’altra cosa e non sembra facile recuperarla, sia dentro che fuori dai partiti. I grillini dovranno decidere cosa fare con i dissidenti, una cosa non semplice dato che al Senato bastano una decina di voti per andare sotto. Mentre il PD dovrà prestare attenzione ai ritorni di fiamma di alcuni ex renziani. E se è vero che in questi giorni le tensioni tra gli azionisti di maggioranza del governo abbiano raggiunto livelli che non si vedevano da mesi, si spiegherebbe anche il motivo per cui Giuseppe Conte abbia deciso di intervenire con una discussa cabina di regia, più tecnica e meno politica, sul Recovery Plan.
Appare chiaro che proprio nella fase più delicata della gestione Covid si manifestano i peggiori vizi dei governi di coalizione: le crisi di coesione. Nella maggioranza si procede per inerzia, nella speranza di organizzare Cdm a notte fonda e sperare che qualcuno tiri fuori un coniglio dal cilindro. C’è chi dice che questo sia un vezzo da sopportare in governi del genere, e che non ci siano rischi legati alla tenuta dell’esecutivo stesso. Per ora è stato così, visto anche che un eventuale ritorno alle urne produrrebbe una maggioranza diversa. Ma è evidente che prima o poi qualche ingranaggio potrebbe rompersi.
Mi piaceva ricordare le parole di Papa Francesco, dette qualche giorno in una rete televisiva italiana: “i politici cerchino il bene delle popolazioni e non del proprio partito”, aggiungerei senza mascherarsi dietro la ormai “svuotata” frase “lo faccio per un bene comune”, ricordando che il bene comune, che la politica dovrebbe sempre essere servizio, gestione della casa comune e non gestione di potere…. e la gestione del potere mi richiama altre realtà lontane dalla democrazia.