“La cellula della riorganizzazione democratica è la comunità”. È una frase di Ciriaco De Mita che oggi ha una sua profonda valenza politica e culturale. La scomparsa di De Mita dovrebbe far riflettere sul tempo della storia e sulla storia della politica di decenni passati. Più che il tecnicismo della politica è stato il pensiero della politica che ha avuto “luogo” nel suo modello identitario. Quel pensiero che ha permesso di avviare un discorso robusto, inquieto, conflittuale, serio, sentito con Bettino Craxi. In tempo culturale in cui la politica proveniva dalla manifestazione delle idee, De Mita è stato il portatore non di ciò che è stata definita “staffetta”, ma dalla comparazione di un processo in cui le eredità erano la visione di un “valore” cattolico e di un portato riformista.
Credo che abbiamo vissuto una temperie importante che è stata quella del “catto – riformismo”. De Mita nel contesto democristiano del post Moro è stato un riformista nel pensare la politica come pensiero dentro il governare, o meglio dentro il potere. L’asse significativo del governare tra rappresentazione e politica era stata segnata dalla profondità profetica di Riccardo Misasi, straordinario e unico nel sentire la politica come espressione culturale, e il saper leggere con lungimiranza la ragione dei fatti di Ciriaco De Mita. Non mi riferisco ad una politica come servizio. Bensì al servizio della politica come espressione progettuale.
De Mita è stato l’idea del progetto politico in in tempo di scoordinamento comunista sia in Italia che in Eutopa. Protagonisti di un’epoca del costruire attraverso la cultura della politica e del pensiero nella profezia di un tempo che sarebbe diventato storia sono stati appunto De Mita, Craxi e Misasi, pur in un vasto dibattito dialetticamente conflittuale.
Infatti la morte di Moro ha sancito la fine di un pensare la politica tra comunismo e democristiani ed ha aperto profeticamente lo spazio di un riformismo articolato. Il mondo cattolico e riformista aveva in De Mita il punto di riferimento pur con delle contraddizioni sempre sanate dalla intelligenza prospettica di Misasi.
Nel suo saggio “La storia d’Italia non è finita” del 2012 il percorso politico non ha solo una testimonianza ma è una trasmissione di idee, ovvero di Idea. Infatti egli spesso sottolineava: “In politica il pensiero è importante, ma per realizzare il pensiero bisogna convincere gli altri a comportarsi in modo tale da realizzare il pensiero”.
Realizzare pensiero è stato sempre il centro di un dire e di un fare una dimensione della politica che pone insieme l’ontologia della politica stessa e il fare in una transizione in cui il quotidiano si costruisce guardando certamente al presente ma vivendola con la capacità di rendere ciò futuro. Infatti nel suo agire vibrava sempre questa considerazione: “La politica è tale se prefigura il nuovo, non esiste politica che non prefiguri il nuovo”.
Molto acuto e critico nella sua attualità quando sa incidere con una considerazione del genere: “Siamo diventati un Paese che non pensa, non cresce, non ha più speranza e affoga nella amoralità, che è peggio dell’immoralità”. Si era al 2010.
Ha saputo leggere sempre il tempo dell’operare. Anche nelle crisi il pensiero e il progetto devono poter superare il programma: “La politica di oggi si fa coi programmi. Ma i programmi non contengono la soluzione per la crescita di un Paese. La nascita o la rinascita di un Paese sta nelle parole. Perché le parole contengono le regole. E non esiste programma se prima non ci sono le regole”.
Nel suo libro del 1997 “La memoria e il futuro” pone all’attenzione proprio questo scavare nei linguaggi della politica.
La politica come Ragione d’essere. Di politica si ragione. Appunto nel suo “Ragionando di politica. Le prospettive della democrazia italiana negli anni Ottanta”, pubblicato nel 1984 ci sono i percorsi di un indirizzo che interesserà le diverse questioni dell’Italia degli anni tra fine Ottanta e Novanta.
Molto preciso è la sua chiosa su Bettino Craxi: “Le motivazioni che vengono avanzate da chi si oppone rafforzano la mia convinzione. La lettura giustizialista della vicenda politica è inadeguata, la crisi non è stata risolta e anzi si è aggravata. Non possiamo cambiare i fatti, ma dobbiamo interrogarci per restituire al personaggio la sua dimensione politica. Col senno di poi bisogna convenire che è sbagliato leggere l’esperienza dell’uomo politico Craxi come quella di un criminale latitante. Deve essere riconosciuto come un protagonista della nostra storia politica. Non è stato una comparsa, aveva in testa un disegno”.
Oggi questa lettura diventa un perno nella ricerca della ricostruzione degli anni che abbiamo vissuto e abitato. Nel suo linguaggio di erede moroteo c’è la forza della riflessione. Quella stessa riflessione che Moro dal carcere delle brigate rosse aveva visto in Riccardo Misasi indicandolo come l’unico in grado di far “ragionare” il cosiddetto partito della fermezza. Ciriaco De Mita, da Mediterraneo dentro il mediterraneo, aveva letto quella politica di Moro nella quale la comunità e il senso di comunità erano regola, religiosità, umanità.
Non voglio parlare dello statista, del parlamentare, del presidente del consiglio, del sindaco. Ciriaco De Mita era il politico del pensiero e oltre. Nel 1988 pubblica “Politica e istituzioni nell’Italia repubblicana” nel quale si attraversa la storia nel tempo speculare della società dei partiti che riprende il tassello segnato nel 2004 in un saggio dal titolo: “Da un secolo all’altro. Politica e istituzioni a partire dal 1968”. Una geografia politica quella di De Mita che ha segnato non solo in tempo ma soprattutto un’epoca. Così da un suo discorso del 1987: “Io credo alla parola. Dio ha dato agli uomini la parola perché possano comunicare. Il rapporto tra la parola e le intenzioni di una persona sono la moralità della persona”.