Il realismo della politica: poche riforme, ma buone e utili al Paese

La Premier Meloni non si stanca di riaffermare, ogni qualvolta ne ha l’occasione, che il suo governo è nato cento giorni fa per durare cinque anni, né uno di più né uno di meno, tanti quanti dura una legislatura, vero primato mai raggiunto dai 68 e passa governi che si sono succeduti dal ’45 ad oggi.

La Premier intende fare nell’arco dei cinque anni di permanenza al governo una serie interminabili di riforme di non semplice attuazione, con il rischio concreto di non vedere realizzata neanche la metà delle cose elencate che vanno dall’attuazione del PNRR alla riforma della pubblica amministrazione, dalla riforma dell’istruzione con l’inserimento del merito nella valutazione dei docenti e degli alunni, alla riforma fiscale, dal rafforzamento della sicurezza e difesa del nostro Paese al rilancio dell’occupazione nel Sud, per superare l’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, mal digerito dalla Destra e da buona parte della Sinistra che non ha potuto rivendicarne la paternità.

Senza tralasciare le grandi opere pubbliche come il ponte sullo Stretto, l’autonomia differenziata, il presidenzialismo e una nuova politica di contrasto all’immigrazione clandestina. Sicuramente l’elenco è incompleto, ma sfido chiunque a pensare di poter realizzare la metà delle riforme elencate in cinque anni, con una coalizione di governo dove le diverse forze politiche sono sempre in competizione e, con al suo interno, persone di qualità adeguate al ruolo che rivestono, mentre altre non lo sono affatto.

L’Italia è una democrazia che fin dal suo nascere si è dimostrata debole, non in grado di esprimere governi forti, non soggetti ai poteri di veto che si sono poi rivelati più forti e numerosi di quelli che condizionano gli esecutivi di altre democrazie europee. L’eccessivo carico dei problemi da risolvere, ha sempre costretto i governi in Italia a scegliere fra l’immobilismo, l’inattività e un attivismo frenetico ma improduttivo.

Una ragione in questa incapacità di affrontare con successo i problemi vecchi e nuovi c’è e va ricercata nell’invecchiamento sempre più evidente della società e, quindi, nella scarsa propensione ad accettare qualsiasi cambiamento. Solo una società giovane ha interesse a investire sul futuro, non certo una società che per ragioni anagrafiche è interessata solo al presente. C’è sempre stata nella politica del nostro Paese, una frattura tra la retorica del cambiamento a cui non si sottrae nessun politico in campagna elettorale e la vera disponibilità degli elettori a fornire il consenso necessario per realizzare le riforme promesse.

Una cosa è votare per un partito che si dice pronto a fare una “rivoluzione dall’alto”, un’altra cosa è continuare a sostenerlo anche quando si tratterà di passare dalle parole ai fatti, perché ci saranno sempre interessi inamovibili, che non bisogna intaccare e, in grado di mobilitare ampi settori dell’opinione pubblica.

In attesa dei grandi cambiamenti, che mai ci saranno perché l’anima profonda del Paese continua ad essere conservatrice e i poteri di veto sono tanti e lavorano, anche con successo, al mantenimento dello status quo esistente, il governo Meloni dovrà rivedere la sua agenda politica, selezionando gli impegni, si da porre fine alle gravi disfunzioni della macchina statale, ridisegnando i rapporti tra Parlamento e Pubblica Amministrazione, inquinati da tempo e vero vulnus dello Stato.

Il governo, per il momento, gode dell’appoggio dell’elettorato, tenendo in debito conto la frammentazione dell’opposizione, la sua condizione di impotenza, destinata a durare a lungo. Ma il declino della popolarità probabilmente, non tarderà a palesarsi, riducendo i suoi già ristretti margini di manovra, a causa delle scarse risorse disponibili e costringendolo ad un bagno di realismo per non essere schiacciato dall’enorme carico dei problemi da risolvere. 

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