La realtà della Chiesa nel Mondo: ne parliamo con l’Arcivescovo Santo Rocco Gangemi, messinese di origine, per lunghi anni Nunzio Apostolico di Guinea e Mali, e prima ancora in servizio diplomatico per la Santa Sede in Africa, e prima ancora in altri continenti. Attualmente, è Nunzio Apostolico in El Salvador: all’arrivo in quella Nazione, suo primo – si può dire – atto ufficiale fu di celebrarvi con solennità la canonizzazione del martire della fede Mons. Romero: San Oscar, come lo chiama il popolo salvadoregno, veneratissimo dell’intera America Latina, elevato agli altari per volontà di Papa Francesco nell’ottobre del 2018. In El Salvador, S. E. Gangemi fu accolto con calore, preceduto dalla fama di “pastore amante delle pecore” – per usare un’espressione cara a papa Francesco, ed è circondato dall’affetto della gente, anche della più umile, in grazie della dottrina e della semplicità con le quali si spende nel sacro ministero.
L’idea di questa intervista è antica, nata da profonda stima verso la persona e da curiosità verso la diplomazia vaticana: un organismo complesso, in perenne, difficile, equilibrio tra sacro e profano, ossia tra la religiosità della quale la Chiesa Cattolica Romana è depositaria (e responsabile) e le istituzioni mondane con le quali essa, necessariamente, deve interagire. Insomma, ci è parso che quella con Mons. Gangemi potesse essere una conversazione utile per guardare la Chiesa Cattolica da un punto di vista inconsueto, quello del Mondo.
Così, ottenuta la disponibilità del presule, abbiamo trovato infine il kairós (il momento opportuno): e ciò è avvenuto in piena pandemia, durante quelle che potremmo definire le sue vacanze forzate (e operose) in Sicilia. Riportiamo qui il senso di quella che, naturalmente, è stata una conversazione ‘a distanza’.
Eccellenza, in lei un alto sapere teologico si coniuga con la coscienza dell’eredità storica che esso reca con sé. Ci è noto che questa sua disposizione interiore procede da una formazione giovanile assai rigorosa: dapprima nella sua città, Messina, ha frequentato il Seminario e il Liceo Classico, e dopo ha seguito un percorso tutto vaticano: il Collegio Capranica, con gli studi teologici e storici, la familiarità con gli archivi della Biblioteca Apostolica, infine la Scuola Vaticana di Diplomazia.
Ci preme anzi tutto chiederle cosa pensa del fatto che in molti Seminari, d’Italia e d’Europa, non si vada più tanto per il sottile nell’istruire il futuro sacerdote, con risultati che alla lunga potrebbero risultare fatali per la difesa e la conoscenza stessa della dottrina.
Vorremmo inoltre che cortesemente ci chiarisse che tipo di formazione riceve un giovane che, dopo il Dottorato in Teologia, venga ammesso alla Scuola di Diplomazia? Ci sembra infatti che le sue riflessioni possano offrire incoraggiamento a giovani che hanno risposto ad una sincera vocazione sacerdotale, ma non desiderano abbandonare altre forme di istruzione. Pensano infatti, e crediamo giustamente, che non vi sia contrasto tra servire la Chiesa e servire l’umana società. Del resto, non ci sfugge che lei è sempre ricco, nelle omelie e nei discorsi pubblici, di riferimenti scaturiti dagli scritti sacri e dai Classici, benché nel contesto omiletico sia attentissimo a mantenersi comprensibile anche al pubblico più umile; inoltre, è evidente la sua sensibilità alla bellezza delle opere d’arte che la fede ha ispirato.
Alla prima parte della domanda credo che in parte abbiate già risposto. Indubbiamente il numero ridotto di sacerdoti può influire anche sull’aspetto formativo, ma non giustifica la mancanza di sforzo, e in qualche caso anche di sacrificio, per trovare ottimi formatori sui quali investire per il futuro! Io non ho mai fatto mistero a nessuno della necessità di una seria, profonda e completa formazione nel cammino verso il sacerdozio, che tocchi tanto la sfera teologica, quanto quella culturale, senza lasciare fuori quella spirituale e pastorale. Oggi più che mai il sacerdote non può apparire uno sprovveduto, e allo stesso tempo deve rifuggire dall’essere un tuttologo, ma è anche vero che più si è deboli culturalmente più si è presuntuosi.
Al giovane che vuol diventare sacerdote impartirei una formazione “classica”, ma questo non significa affatto una selettività tra i candidati al sacerdozio, il cui primo scopo è quello di rendersi ed essere “forma gregis”. Pensiamo anche alle belle immagini di pastore che in questi anni ci ha veicolato con semplicità Papa Francesco!
Quanto a me, non vorrei che mi consideraste come un letterato o un uomo di studio, mi definirei piuttosto come uno spirito curioso per tutto ciò che riguarda, oltre il campo teologico, anche quello umanistico, soprattutto letterario e artistico. La Chiesa, probabilmente, nel mondo odierno non è più percepita come la grande mecenate di un tempo, ma gli uomini di Chiesa non possono fare a meno di interessarsi di quanto nutre non solo teologicamente il nostro spirito, anche artisticamente, memori che la bellezza ci porta a Colui che in essa ora si cela ora si svela; ci conduce a Colui che “è il più bello tra i figli dell’uomo”. A questo si aggiunge per tanti ecclesiastici il dovere di custodire il patrimonio che viene loro affidato. Molte delle nostre Chiese sono dei veri musei e non possiamo deturparle e danneggiarle con incuria o, ancor peggio, con una estemporanea inventiva. Già molti guai sono sotto gli occhi di tutti! Non dimenticare poi, con buona pace anche delle varie Sovrintendenze ai Beni culturali, che l’arte delle nostre Chiese veicola e manifesta anche l’ecclesiologia del tempo in cui esse furono costruite … E mi fermo qui per non scivolare e scadere nella polemica e soprattutto per non uscire dal tema della domanda.
Comunque, per completare il quadro della mia personale formazione, effettivamente, dopo i corsi teologici e un Dottorato in Storia della Chiesa, ho seguito corsi di Diritto internazionale e di Stile diplomatico, specifico per prepararmi al servizio che avrei svolto successivamente.
La sua preferenza per la formazione “classica” è riferita – ci pare – a quel tipo di formazione che, in passato, istruiva i giovani alle belle lettere e, includendo Latino e Greco, consentiva loro di leggere con padronanza i testi sacri nelle lingue originali, di avvicinarsi al pensiero di grandi teologi cattolici del passato ‘remoto’ senza bisogno di intermediari. Certo, si tratta di un percorso che adesso è giudicato antiquato, ma aveva i suoi pregi ….
Riguardo all’esperienza personale, lei ci risponde senza enfasi, ma siamo al corrente del fatto che la Scuola Vaticana di Diplomazia è una istituzione severa, che comporta la selezione degli allievi, un pesante studio di discipline sociologiche e giuridiche, di diverse lingue straniere, a supporto di un servizio che si svolge necessariamente in orizzonti internazionali.
Sappiamo che una lunga carriera diplomatica l’ha condotta in molti Paesi, non di rado in contesti estranei o addirittura ostili al Cristianesimo. E tuttavia la sua carica di umanità l’ha resa gradita, procurandole ottimi rapporti con le comunità dei fedeli e agevolandole quelli con le società e i decisori politici. Eppure, la sua fermezza morale deve averle impedito di relativizzare, di cedere sui princìpi. Ha vissuto momenti difficili o particolarmente delicati in tal senso?
Ogni esperienza è differente dall’altra, come ogni Paese è distinto dagli altri, anche perché ogni nazione non è un insieme amorfo di persone, ma gioca molto la posizione geografica, la cultura, la storia e lo sviluppo economico raggiunto. Alla base di ogni buon servizio diplomatico ci deve essere la capacità di dialogare e di mediare, senza cedere mai sui principi fondamentali, che sono alla base e che formano la specificità della diplomazia della Santa Sede. Situazioni delicate ce ne sono sempre e si possono incontrare anche lì dove uno non se lo sarebbe mai immaginato. L’importante è non scendere mai a compromessi o come direbbe San Paolo non lasciarsi sballottare da ogni vento di dottrina (“ .. ut iam non simus parvuli fluctuantes et circumferamur omni vento doctrinae…” Ef 4,14) per un fatuo momento di gloria.
A tal proposito, cosa pensa della conversione di Silvia Romano, lei che ha vissuto nei luoghi dove l’Islam radicale pesantemente interferisce con quello normale? Come deve essere un cooperante, a cosa deve prepararsi, quali garanzie di sicurezza personale può avere e se davvero – come da ultimo si dice – ci sono luoghi espressamente vietati in alcuni territori africani, mediorientali, o in altre zone ‘calde’ della Terra?
Sono convinto che avendo chiare le idee della nostra fede il dialogo non solo è opportuno, ma anche necessario. Dialogando si possono raggiungere molti obiettivi e risolvere tanti problemi. Naturalmente esso comporta non solo il parlare, ma anche l’ascoltare e, quindi, l’avere molta pazienza. Comunque come diceva spesso il Card. Tauran “siamo condannati al dialogo!”, e il dialogo è anche sacrificio e, a volte, anche “martirio della pazienza” (Card. Casaroli).
In questa citazione dell’Apostolo cogliamo più di quanto non ci dica, ossia l’allusione alla necessità di abnegazione e dell’interesse della comunità ecclesiale, a dispetto della comodità (o magari del vantaggio) personale. Sarebbe bene accetto, a questo punto, un cenno al tema del dialogo interreligioso: sappiamo, anche da uno splendido seminario che lei tenne a Messina per l’OFS, che le sta molto a cuore, e che lei crede fermamente che esso sia possibile. D’altra parte è sempre possibile? Ed è sempre utile tentarne la via? Ci sono realmente degli elementi comuni tra le fedi che possano orientarlo? Oggi, soprattutto di fronte al fermentare del radicalismo islamista sembra sempre più arduo portarlo avanti.
Preferirei non entrare nel tema della Romano. Sulla conversione invece avrei una domanda: che rapporto aveva antecedentemente con la propria fede cristiana? Comunque ho avuto modo di incontrarmi e di avere familiarità con molte persone appartenenti a diverse ONG. Le ho trovate ben preparate e motivate: certo andare ad aiutare non significa andare a fare il “turista stipendiato”, ma questo dipende dalla deontologia personale, dalla formazione ricevuta, e soprattutto dalle profonde ragioni che giustificano una tale scelta professionale.
Cambiando argomento, come – secondo lei – il laicato potrebbe meglio supportare l’evangelizzazione? Pensa che davvero, in alcuni luoghi e Paesi, i laici dovrebbero avere maggiori responsabilità che in altri? E per quanto riguarda il ruolo delle donne nella Chiesa, pensa che ne abbiano uno appropriato?
Reputo che il Concilio Vaticano II abbia aperto, anzi spalancato, le porte ad un maggiore impegno laicale; sia chiaro, non che prima non ci fosse, basta pensare all’esercito di catechiste e catechisti che ha sempre aiutato il ministero dei parroci, ma diciamo che dopo il Vaticano II si è presa maggiore coscienza del ruolo del laico e del suo servizio in seno alla Chiesa. Forse le Chiese missionarie in questo campo sono state più esemplari che quelle di antica tradizione, ma ciò che importa è che si sia formata la coscienza che il laico in seno alla Chiesa è un ‘bene’. È vero che ancora questa coscienza non è pienamente percepita dappertutto, però è pur vero che exempla trahunt. Anche sull’impegno della donna si stanno facendo tanti passi avanti; se da una parte bisogna ancora superare molti pregiudizi, dall’altra bisogna evitare sterili e ridicole rivincite. Se comprendessimo meglio il brano degli Atti degli Apostoli che sancisce l’istituzione del diaconato (At 6, 1ss) “Non `e conveniente che noi lasciamo la Parola di Dio per servire alle mense…”, senza dubbio riusciremmo ad apprezzare come una maggiore sinergia tra tutti i componenti della Chiesa, nel rispetto dei ruoli e delle funzioni che vengono dall’ordine sacro, e ciò sarebbe a beneficio e non a pregiudizio dell’espansione del Regno di Dio.
La pandemia e il Covid-19 rendono d’obbligo alcune domande su questo periodo di distanziamento sociale: come lo ha vissuto? Lei è stato colto in Italia da questa congiuntura e ha fatto anche un periodo di autoisolamento preventivo, eppure, ha celebrato quotidianamente la S. Messa, molte volte anche in diretta FB, dalla parrocchia messinese di Zafferia: cosa le ha lasciato dentro questa esperienza? Inoltre come si sono regolate le autorità politiche nel Salvador e nel resto dell’America Latina? Hanno lasciato ai loro Vescovi la responsabilità di organizzarsi, magari dando linee-guida? O hanno imposto veri e propri divieti, com’è avvenuto in Italia e in altri Paesi Europei?
Non mi sarei mai aspettato che, tornando in Italia per gli annuali incontri con i Superiori della Segreteria di Stato e per un po’ di riposo, mi sarei trovato nel pieno del ciclone del covid-19. Ho vissuto un periodo particolare che però mi ha permesso di rinsaldare i legami con la mia parrocchia e con tante persone care e vicine. Non posso negare la strana sensazione provata ogniqualvolta ho celebrato l’Eucaristia, soprattutto il giorno di Pasqua e le domeniche. Pensare di parlare ad un pubblico virtualmente presente, però del quale non potevo percepire pienamente la vicinanza, e cercare di palparne i sentimenti non è stato facile, soprattutto durante l’omelia. Spero soltanto che questi sacrifici, che tutti ci hanno accomunati, siano serviti veramente a frenare il contagio e possano aiutare a superarlo definitivamente in attesa di trovare una adeguata soluzione medica. In El Salvador il Governo non è entrato in re ecclesiastica e la Conferenza Episcopale ha veicolato le disposizioni governative per impedire la diffusione del contagio. Il Paese tuttavia è stato blindato: solo in giugno ci saranno le prime aperture e finalmente potrò pensare ad una data per il mio rientro!
Eccellenza, la ringraziamo per la sua franchezza e cordialità, e ci uniamo a lei nell’auspicare la fine della pandemia. Le auguriamo di concludere con serenità il suo soggiorno in Vaticano e in Italia, e un felice rientro in El Salvador. Le saremo grati di una preghiera d’intercessione alla Vergine Maria di Guadalupe e a San Romero!