[b]Immagini[/b]:Sicilia rurale fotografata da Giovanni Verga;
Galleria Vittorio Emanuele di Milano scatto di Duroni Alessandro;
‘Breve storia della pubblicità – anni 80 dell’800, KODAK la prima macchina fotografica [i]User Friendly[/i]’.
Sono davvero tanti gli spunti per approfondimenti e riflessioni nel volume L’Opera di Verga e altri Studi di Critica Letteraria di [b]Lina Iannuzzi, [/b]per la collana "Biblioteca di Sinestesie”, Edizioni Sinestesie, Avellino 2014. Nelle 253 pagine di questo Saggio l’Autrice, sia pure ripercorrendo suoi stessi Campi di Studio, offre nuove e stimolanti occasioni al ricercatore, come al comune lettore, a conferma che per la Ricerca nessun terreno può mai considerarsi finito, non più arabile.
Riferire di tutti gli argomenti trattati sarebbe lungo ed evidentemente superficiale, dunque solo a mo’ di sommario citiamo: Ritorno a Lucia; A proposito di una lettera "inedita" di Alessandro Manzoni; Il "Crepuscolo" e il decennio di prova; Il carteggio Tenca-Maffei; Giuseppe Garibaldi autore di romanzi storici. E ancora: La prosa di Ferdinando Martini; Sigismondo Castromediano; il teatro di Fabrizio Colamussi; L’ora di tutti di Maria Corti; La poesia di Biagia Marniti nella cultura mediterranea. A Verga, poi, è dedicato un ampio spazio che giustifica il titolo del volume, con due lettere del [b]Verga-fotografo [/b]a Cesare Pascarella; Verga drammaturgo fra tradizione e rinnovamento; La "rima gigante" nel Verga (dai Carbonari della montagna al Mastro).
Ecco, la Iannuzzi conferma di prediligere la letteratura italiana della seconda metà del XIX secolo, il giornalismo lombardo e la storiografia letteraria del Tenca in particolare, ma anche la narrativa di scrittori moderni e contemporanei.
Dovendo limitarci ad un unico argomento di questa pubblicazione, si piace soffermarci su quello nel quale, riportando nella versione diplomatica 2 lettere del fondo Ascoli, nn. 2574 e 2575, custodite a Roma all’Accademia dei Lincei, scritte da Verga all’amico Cesare Pascarella nel 1897 (rispettivamente, 7 maggio e 24 giugno), la Iannuzzi volutamente tralascia le notizie dell’ambito letterario per commentare soltanto quei frammenti che le danno la possibilità di fare luce sull’inizio della passione del Verga per la fotografia. Da queste lettere, infatti, si evince chiaramente che la Kodak con la quale egli inizia a fotografare era stata un «simpatico ricordo» proprio dell’amico romano nel suo soggiorno in Sicilia in quello stesso anno. Verga scrive: «Ti ringrazio ancora della macchinetta fotografica, che sembrami utilissima, ma mi ha stancato alquanto a impratichirmi, specie nel diverso modo di chiaroscuro per le istantanee o le prove a posa», per poi aggiungere che già il meccanismo gli è più familiare, «ti manderò qualche prova tutta mia, appena saranno presentabili», dove Verga sottolinea quel “tutta mia”. Oltre si legge che gli invia «le prime prove che ne ho tirate, ancora scialbe o troppo cotte».
Dunque, nel 1897 il Verga-fotografo è ancora alle prese con le difficoltà tecniche, sta ancora provando.
Così, questo Saggio della Iannuzzi, si inserisce con pragmatismo e rigore filologico nel dibattito sorto dopo che Giovanni Garra Agosta considerò «il verismo del Verga scrittore parallelo a quello del Verga fotografo», avendo ritenuto da notizie orali che le prime fotografie egli le avesse scattate nel 1878 con un apparecchio appartenuto a suo zio don Salvatore Verga Catalano di Vizzini.
Nel 1966 lo studioso di Verga aveva anche rinvenuto in una cassapanca nella casa di via Sant’Anna, n. 8 a Catania l’archivio fotografico dello scrittore, composto da 327 lastre di vetro con alcune didascalie scritte dall’autore, 121 fotogrammi in celluloide, 450 negativi fotografici, una macchina a cassetta, una Kodak acquistata nel 1891 per L. 65 a Milano da Duroni, il celeberrimo stabilimento fotografico al n. 13 della Galleria Vittorio Emanuele, quindi una istantanea Express-Murer acquistata sempre a Milano, ed infine nel 1897 una Eastman con i rullini di celluloide acquistata a Londra.
La scoperta fece molto scalpore, innumerevoli articoli e una Mostra organizzata da Wladimiro Settimelli e dallo stesso Agosta nel 1970 fecero conoscere al pubblico questo aspetto dello scrittore catanese, accendendo il dibattito sul nesso tra Letteratura e Fotografia nell’opera del narratore verista, influenzato dall’affermazione di Garra Agosta, e provocando un vero rifiuto accademico della tesi. Nel 1982 iniziarono i primi dubbi che caratterizzano gli scritti del catalogo della Mostra di fotografie di Verga, Capuana e De Roberto, allestita a Catania: bisognava salvaguardare, mettere al riparo il verismo dalla intrusione della fotografia, scriveva Leonardo Sciascia nella prefazione a Andrea Nemiz, curatore della Mostra.
Fatta una essenziale cronistoria della querelle ormai annosa, la Iannuzzi fa notare che nelle lettere da lei esibite, dopo aver parlato di fotografia, Verga scrive: «Ora parliamo di cose serie», le quali non sono altro che notizie riconducibili alla Letteratura e al milieu letterario di Verga, gli amici scrittori soprattutto, confermando così l’uso hobbistico della fotografia e nel contempo la primazia della letteratura.
In conclusione, le argomentazioni della Iannuzzi sembrano più convincenti a dimostrare che Verga non concepì la fotografia come modello per la scrittura, ma decisamente separata, bene testimoniato dal dato cronologico che sposta l’attività fotografica di Verga decisamente verso gli anni in cui i suoi scritti più significativi del Verismo erano già apparsi e anzi la sua crisi creativa andava esaurendo proprio l’impronta verista. Probabilmente Verga non arrivava neppure a considerare la fotografia come Victor Hugo “la scienza che sconfigge l’Arte”, certamente ne comprendeva l’importanza e una sua propria utilità se in una lettera del 26 dicembre 1881 aveva chiesto a Capuana: «Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita».
D’altronde fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta dell’Ottocento la fotografia era diventata una moda molto diffusa nell’élite e per anni fu praticata nella cerchia dei suoi amici scrittori siciliani, De Roberto, Capuana fin dal 1863, e anche Zola con il quale pure aveva rapporti; così Verga non poteva non esserne affascinato, senza dire che egli ha soggiornato a lungo a Firenze, dove dal 1852 operava lo storico laboratorio fotografico dei Fratelli Alinari, e a Milano, città altrettanto presa della nuova scoperta. In una delle lettere presentate nel Saggio della Iannuzzi si legge tra l’altro: «Intanto mi preparo alla partenza io pure, colla fida Kodak…», dunque una compagna di viaggio, non di lavoro. Infatti, tra i cimeli rinvenuti da Garra Agosta c’erano ritratti di familiari, di amici, quali Capuana, De Roberto, Eleonora Duse, ma anche di paesaggi, non soltanto quelli della Sicilia rurale, ma anche del lago Maggiore e dell’alta Valtellina. Vincenzo Consolo scrive nel saggio introduttivo a Verga Fotografo di Garra Agosta: «Non c’era insomma nessun rapporto tra la scrittura e le fotografie di Verga [. . .]. Senonché, fotografando, l’uomo Verga fatalmente riportava nelle immagini quello che era l’“occhio,” il sentimento, il modo di essere e di sentire dello scrittore. Riportava quell’occhio “fotografico,” quell’obiettivo “impersonale” che guarda come dall’alto i personaggi dei Malavoglia . . .».