Lontananze e risacche

Coinvolti e sommersi dai “filtri” tecnologici ed elettronici che avviluppano tutte le nostre attività rischiamo, inconsapevolmente, di finire schiavi di un mondo unidirezionale

Immagine: Il libro Lontananze e risacche

Mi è stato chiesto perché abbia titolato Lontananze e risacche la mia ultima raccolta di scritti saggistici (Ismeca, BO, 2014). Le “lontananze”, per cominciare, alludono al distacco che ci deve essere tra chi vuole osservare, e riportare in qualche modo all’interno di una diagnosi critica, una determinata realtà. In questo caso una realtà di parole, di scrittura, quella condensata in un testo letterario. E quindi tra osservatore e “cosa” osservata. P. P. Pasolini aveva coniato al riguardo l’espressione “descrizione di descrizioni”.
Senza questo sguardo sgombro da preconcetti e depurato per quanto possibile da ogni interferenza emotiva personale, non ci può infatti essere un vero distacco critico. Lo sguardo di un critico, così, dev’essere proprio il contrario di quello di un mistico, che tende a “fondere” se stesso con la realtà con la quale interreagisce. Un mistico si “perde” infatti nella realtà osservata: “soggetto” e “oggetto” tendono a diventare un unicum fusionale.
Le “lontananze”, poi, hanno una valenza diversa, che prescinde da una specifica analisi dei testi letterari, e sono da riferire a un più generale modo di osservare la realtà contemporanea. Oggi infatti siamo coinvolti e sommersi dai “filtri” tecnologici ed elettronici che avviluppano tutte le nostre attività e – senza consapevolezza, a volte – ci rendono schiavi di un mondo, come diceva a suo tempo Herbert Marcuse, unidirezionale. Al punto che alcuni di questi social network hanno predisposto un apposito linguaggio ridotto all’osso, ma utile a scambiare con celerità notizie, anzi news, in maniera semplificata. E dalla semplicità alla semplificazione il passo è breve, sicché si finisce senza accorgersi in un imbuto dove il semplicismo si associa al pressapochismo. Si prenda a esempio quel linguaggio semplificato chiamato emoticon, dove le linee facciali (soprattutto occhi, sopracciglia e bocca) inscritte dentro un cerchietto dovrebbero esprimere le emozioni provate.
Lo stesso tempo trascorso, nell’arco della giornata, davanti al computer segna a volte il coinvolgimento individuale. Fino ad arrivare a vere e proprie forme maniacali di dipendenza dallo strumento tecnologico che costituiscono una malattia. Al punto che qualche Stato comincia a preoccuparsi e cerca di porvi rimedio. In Cina esistono delle cliniche per la cura della dipendenza, dove i pazienti sono governati rigidamente: l’unico svago che è loro concesso è qualche ora di “applicazione” con le carte da gioco.
Giovanni Reale (ahimè scomparso il 15 ottobre di quest’anno), a proposito delle varie scoperte tecnologiche contemporanee, sosteneva: “Noi non vogliamo certo escludere gli enormi vantaggi della tecnica e considerarla il più grande dei mali dell’uomo d’oggi, come fanno alcuni che hanno individuato le drammatiche conseguenze che la tecnologia comporta. Vogliamo però ricordare una regola di base che si dovrebbe sempre seguire, ossia che le scoperte tecnologiche andrebbero utilizzate in modo critico, in ‘giusta misura’, e mai in modo predominante”.
Nel suo articolo, Reale citava innanzitutto Clifford Stoll (Confessioni di un eretico high tech, Garzanti, 2001), che affermava: “La mia perplessità non ha origine da un disgusto per l’informatica, ma dall’amore che nutro per i computer. Rimango stupito di fronte alle previsioni iperboliche che li circondano, a certe assurde predizioni che creano eccessi di aspettative e in fin dei conti una perdita di credibilità”. Come accade per il progetto di Google, che dagli “archivi di dati” vorrebbe passare agli “archivi di conoscenze” (senza dimenticare che, già oggi, c’è chi vede in Google il “Grande Fratello” ipotizzato da George Orwell).
Richiamava poi il francese Paul Virilio, secondo cui la rivoluzione dell’informatica costituisce una “tragedia della conoscenza”, perché genera “una confusione babelica dei saperi individuali e collettivi”, sostituendosi alla diretta “interazione fra le cose e l’intelligenza degli uomini” e quindi, “eliminando i linguaggi delle vive parole e delle cose, provoca una dimenticanza della realtà nel suo spessore ontologico, sostituendola con il virtuale”. Hans-Georg Gadamer, poi, dice che “si comincia a parlare di una computer age, nella convinzione non infondata che l’intero stile di vita fra gli uomini stia cambiando radicalmente. Quando un tocco di bottone rende raggiungibile il vicino, questo sprofonda in una lontananza irraggiungibile”.
Infine, “Martin Heidegger sosteneva addirittura la tesi che l’eliminazione della ‘lontananza’ con la‘vicinanza di tutto’, come avviene appunto con i mezzi di comunicazione multimediale, viene a coincidere con l’assenza, ossia con l’assenza delle cose reali, e scriveva: ‘Tutto si confonde nell’uniforme senza-distacco. Come? Questo compattarsi nel senza-distacco non è forse ancora più inquietante di un frantumarsi di tutto? Tutto ciò che è reale si stringe nell’informe senza-distacco. “La vicinanza e la lontananza di ciò che è presente rimangono assenti” (l’articolo di Reale è apparso nel supplemento del “Corriere della Sera” del 7.9.2014).
Se con queste affermazioni non ci dimostriamo certamente integrati – come diceva Umberto Eco nel suo famoso saggio – non vogliamo nemmeno essere ritenuti apocalittici. Vale perciò richiamarsi alla “saggezza antica” di Giovanni Reale, al suo ne quid nimis o al suo medèn upèr tò mètron (“niente al di là della misura”). E passare senz’altro alle “risacche” del titolo.
Come dice l’epigrafe dal Cimitero marino di Paul Valèry riportata all’inizio del libro, la risacca consiste nel “cambio delle rive in un rumore”. E già questo presuppone una certa distanza dal moto ondoso che batte contro la riva e che viene percepito come “suono”. Ma, ovviamente, c’è un impiego metaforico del termine che scavalca il fenomeno fisico. Leggere, e riportare in un escreto autre, più o meno valutativo del contenuto di un libro e della sua valenza letteraria, non è forse operazione affine al “cambio delle rive in un rumore”? Che poi la stessa attività critica possa essere paragonata a un “rumore” e possa quindi apparire mortificata, non ci sembra cosa sconveniente. In fondo, un certo understatement mi è stato sempre connaturato, come dimostra il titolo del mio precedente libro di saggistica (Piccolo cabotaggio, Ismeca, BO, 2010).

(dicembre 2014)
SERGIO SPADARO

Sergio Spadaro, saggista, scrittore e poeta di cultura umanistica e scientifica. Nato sulla costa jonica messinese, dopo la laurea è vissuto dapprima in Sicilia e dal 1968 al Nord (Piemonte). Risiede a Milano dalla fine del 1997. Collabora con interventi critici su varie riviste letterarie. Ha pubblicato: con le Edizioni del Leone (Spinea-VE) “Nel rogo” (1987), “Sotto lo stesso cielo” (1991) e “Sàvoca”; con le Edizioni Tracce (Pescara) “La Kore d’Hipponion e altri poemetti” (1994); con Galli Thierry Stampa (Milano) “Onda mediterranea” (2000); con Ismeca Editrice – Bologna (2010) “Piccolo cabotaggio” Selezione di saggi e recensioni letterarie (1978-2008); con le edizioni ACR dell’Associazione Christian Hess ha pubblicato il saggio “Espressionismo Siciliano” (2011); con Ismeca Editrice (Bologna 2014) “Lontananze e risacche” Saggi e recensioni letterarie (2005-2013) e in appendice introduzione e versione de “Il Cimitero marino” di Paul Valery, con un disegno di Michele Spadaro pittore lirico scomparso nel dicembre 2011.

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