Immagini: Eugenio Vitarelli e “Placida” uno dei suoi libri
Per parlare della scrittura di Eugenio Vitarelli non ci può essere [i]incipit[/i] migliore di quanto afferma il critico Salvatore Ferlita nel paragrafo a lui dedicato nella sua antologia sugli scrittori siciliani del Novecento: “Ogni qual volta si pensa a Messina, al suo mare così prodigo di storie e mitologie, il nome di scrittore che quasi per riflesso viene evocato è quello di Stefano D’Arrigo, il Melville isolano grande sperimentatore di linguaggi. A nessuno verrebbe in mente di legare la città che si affaccia sullo Stretto alla vita e all’opera di Eugenio Vitarelli, che ivi nacque nel 1927 e che morì a Pomezia nel 1994, oggi condannato all’oblio da critici e studiosi di letteratura e soprattutto dalla sua stessa Messina, che non si è mai prodigata abbastanza per recuperarne la memoria” ([i]Le arance non raccolte,[/i] Palumbo, PA, 2011, p. 223).
Vitarelli esordì da Mondadori nel 1983 col romanzo [i]Placida[/i] (in precedenza suoi racconti erano apparsi su riviste letterarie). Nel risvolto di copertina Leonardo Sciascia asseriva:” Conosco Vitarelli da trent’anni. […] Lontane, lontanissime, sono nella nostra vita le cose che racconta: ma è come se improvvisamente irrompessero nel fuoco di una lente, da confuse e lontane a farsi vicine, nitide, precise. E’ l’estate del ’43 in Sicilia, che racconta. La sua estate del ’43, la nostra quella di ogni siciliano che allora stava tra adolescenza e giovinezza, che scopriva la bellezza di vivere dentro l’orrore della guerra, i disagi e i disastri, la fame. Da ciò, in queste pagine, una specie di stupore, di meraviglia, di domanda; qualcosa di simile, in sottofondo, al chiedersi di Fabrizio del Dongo se ha veramente assistito a una battaglia. Abbiamo veramente assistito a una guerra, nell’estate del ’43.
L’edizione mondadoriana del romanzo è ormai esaurita. Ma per i messinesi d’oggi, quelli almeno che hanno interesse ad approfondire le proprie radici, segnaliamo la ristampa del romanzo da parte di Mesogea by GEM, ME, 2011 (con prefazione del sovracitato Ferlita).
[i]Placida[/i], se appartiene alla letteratura della memoria e rappresenta in tale àmbito la riscoperta lirica del trapasso dall’adolescenza alla maturità, si caratterizza per l’asciuttezza dell’espressione, che deriva da un rigoroso “controllo” intellettivo della frase, e dell’emozione. Peraltro lo stesso Vitarelli dichiarò una volta che “la trasparenza perfetta è il mio ideale di prosa”. Si avverte che egli è passato attraverso varie esperienze. Dove gli influssi subìti hanno lasciato una traccia più marcata è nell’uso del discorso diretto, che un po’ richiama il “parlato” hemingwayano passato al filtro del conterraneo Vittorini, ma di quest’ultimo senza le ossessioni ripetitive e i vezzi manieristici.
Nell’àmbito della restituzione del “parlato” della realtà contadina, Vitarelli procede a inframmezzare all’italiano lacerti di siciliano. Il filtro memoriale si sposa, nel racconto, a quella sorta di distacco sentimentale che l’io narrante denuncia come stigma causato alla sensibilità adolescenziale dall’esperienza traumatica e negativa della guerra, e spiega la mancanza di rimorso del narratore-protagonista nei confronti della presentita fine dell’avventura con Placida. Il che accentua, nello straordinario personaggio di Placida, l’aspetto terapeutico e catartico di forza primigenia della natura, che ne fa una sorta di [i]Venus agrestis [/i] stavolta benefica. Ed è anzi dalla contrapposizione dialettica di tale Eros sanatore e contadino che restano alleggerite le descrizioni della mortifera piana della prima parte della narrazione. Così quest’ultima può sciogliersi e concludersi nel modo più lineare, restituendo al protagonista la sua “forza” d’uomo e, a noi lettori, la misura di una metaforizzazione icastica e in grado di darci gli odori, infine non più pestilenziali, di origano e di menta dei costoni dei Peloritani di quella lontana estate del ’43.
La successiva prova di Vitarelli, [i]Acqualadrone [/i](Theoria, RM-NA, 1988, vincitrice del premio Chiavari l’anno successivo), fu anch’essa presentata da Leonardo Sciascia come un “racconto di mare realistico e insieme fantasioso, visionario: come si addice al mare di Messina, pieno di miraggi e di miti”. Racconto ambientato nel quasi omonimo villaggio appena di là dello Stretto, che del mondo degli umili pescatori ha inteso assumere il peso e la forza, la durezza e l’elementarietà. Ma anche la particolare [i]religio[/i] della natura, che coinvolge l’aspetto mitopoietico e fabulatorio e può sfociare a volte in forme di superstizione magico-rituali, come nella figura del pescatore Cosmo, la cui morte rappresenta non solo la fine del processo di trasformazione storica ed economica del villaggio di pescatori in anonima comunità turistico-balneare, ma soprattutto la fine della millenaria civiltà contadina, alla quale sono subentrati modelli di acculturazione volgari e rapaci.
Anche [i]Horcynus Orca [/i] di Stefano D’Arrigo è ambientato in un analogo villaggio di pescatori, ma D’Arrigo non descrive alcuna trasformazione storica: attesta solo il tramonto di quella civiltà. La narrazione di Vitarelli, invece, pur venata di malinconia o di vero e proprio religioso [i]horror[/i] (come nel bellissimo episodio della tartaruga marina: “fu come contemplare il volo d’un sogno forte e misterioso, che seguitasse a essere volo nel fondo dell’acqua”) verso tutto ciò che scompare e muore, si attesta al di qua di un limite invalicabile: la consapevolezza razionale della compresenza di [i]eros e thanatos[/i]. E poi c’è la diversità dei procedimenti stilistici e linguistici: in D’Arrigo, l’avvilupparsi barocco delle frasi e la creazione di un vero e proprio idioletto; in Vitarelli, la linearità e la semplicità delle frasi e dei costrutti attraverso una lingua che si avvale del dialetto solo in funzione di arricchimento espressivo.
Il successivo libro, [i]Sireine [/i] (Theoria, RM-NA, 1990), è una raccolta di racconti che sono una discesa nella miseria e nella degradazione dell’uomo, nel vittoriniano [i]mondo offeso[/i]. Quello che dà il titolo allude a strani delfini del Mar Rosso con “pinne lunghe come braccine monche e piccola testa nera di bambina”, di cui i pescatori, se cadono nella rete, subito si sbarazzano per non sentire il loro grido disperato e apportatore di sventure (lo sfondo del racconto si sposta all’Africa Orientale, nelle ex colonie italiane, dove Vitarelli visse intorno al 1950 al tempo dell’amministrazione provvisoria britannica). Ma Messina ritorna in due racconti che si sviluppano tra i reietti dei bassifondi, dove vivono bambini il cui unico sbocco alla miseria è fare i [i]bastasi[/i] (dal greco [i]bastàzo[/i], sollevare pesi, ma anche per traslato soffrire), in case che sono “stamberghe di mattoni, lamiere e pezzi di legno, pietre e carta catramata”. Straziante è la figura della prostituta-bambina, fantasma inconsapevole della possibilità di un’esistenza diversa, che a fronte di tale possibilità può solo opporre il proprio stupore.
Il lungo racconto [i]La chiurma[/i] (Il Girasole, Valverde [CT], 1991) è invece ambientato in una Messina ancora ingombra delle macerie dell’ultima guerra, che richiamano quelle del terremoto del 1908. Attraverso la biografia di uno dei due protagonisti del racconto (il marinaio Vanni Rezza, già componente della “ciurma” di una paranza) viene ribadito lo stesso destino collettivo della città siciliana: cercare di risorgere dalle devastazioni della natura e della storia e – cosa più difficile – ricreare un proprio tessuto sociale, che pur una volta aveva conosciuto, esente dalla sopraffazione e dal sopruso mafioso.
Postumo è poi apparso il racconto lungo [i]La sete [/i](Il Girasole, Valverde [CT], 1995), che è insolito per il registro usato e per la forza di evocazione che possiede. Il registro è infatti quello della parabola allegorica e pertanto con un contenuto di una “visionarietà” a sfondo profetico-utopico ed etico-religioso. Il deserto e l’arsura del racconto (che sottintendono l’opposta polarità dell’acqua necessaria a spegnere la sete di cui ciascuno soffre) non sono che quelli [i]della non speranza[/i], che fa accettare paura e superstizione. Qui il processo di simbolizzazione, se da un lato richiama certo Vittorini, dall’altro affonda le radici nella deformazione espressionistica, peculiare in Sicilia (si ricordi l’esempio di Rosso di San Secondo).
Appartengono sempre al vittoriniano [i]mondo offeso[/i] i personaggi che compaiono nelle successive narrazioni postume di Vitarelli: [i]Il segno della violenza [/i](Theoria, RM-NA, 1999) e [i]Due racconti [/i](Il Girasole, Valverde [CT], 2004). Sicché i derelitti, gli “umiliati e offesi”, i “vinti”, gli emarginati sociali, i “dimenticati” (alla cui difesa attraverso la scrittura è qui dedicata una bella epigrafe) sembrano sempre più diventare la materia privilegiata dell’ultima narrativa di Vitarelli: perché è la storia stessa che è violenza e sopraffazione. Al punto che lo stesso processo storico si può intendere, come faceva in un famoso titolo Alfonso Gatto, come [i]storia delle vittime.[/i]
[i]SERGIO SPADARO[/i]
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[b]Sergio Spadaro,[/b] saggista, scrittore e poeta di cultura umanistica e scientifica. Nato sulla costa jonica messinese, dopo la laurea è vissuto dapprima in Sicilia e dal 1968 al Nord (Piemonte). Risiede a Milano dalla fine del 1997. Collabora con interventi critici su varie riviste letterarie. Ha pubblicato: con le Edizioni del Leone (Spinea-VE) “Nel rogo” (1987), “Sotto lo stesso cielo” (1991) e “Sàvoca”; con le Edizioni Tracce (Pescara) “La Kore d’Hipponion e altri poemetti” (1994); con Galli Thierry Stampa (Milano) “Onda mediterranea” (2000); con Ismeca Editrice – Bologna (2010) “Piccolo cabotaggio” Selezione di saggi e recensioni letterarie (1978-2008); con le edizioni ACR dell’Associazione Christian Hess ha pubblicato il saggio “Espressionismo Siciliano” (2011); con Ismeca Editrice (Bologna 2014) “Lontananze e risacche” Saggi e recensioni letterarie (2005-2013) e in appendice introduzione e versione de “Il Cimitero marino” di Paul Valery, con un disegno di Michele Spadaro pittore lirico scomparso nel dicembre 2011.